Nel risiko bancario in atto nel nostro Paese c'è anche la scalata di Bper alla Popolare di Sondrio, che merita una riflessione
Sono settimane importanti per il futuro del sistema bancario. C’è un gran movimento per un riassetto che vede in campo i maggiori istituti di credito. C’è il Monte dei Paschi di Siena che, dopo anni di grande crisi, punta a conquistare Mediobanca. C’è la stessa Mediobanca che mira a conquistare Banca Generali. C’è Unicredit che ha messo nel mirino BancoBpm. C’è Banca Ifis che vuole integrare Illimity. E c’è Bper che ha lanciato un’offerta per la Banca Popolare di Sondrio.
Le attuali offerte mirano, almeno in teoria, a rafforzare gli istituti di credito interessati, ma ogni operazione è una storia a parte anche se l’obiettivo ufficiale è quello che viene chiamato enfaticamente “creazione di valore”, un obiettivo benedetto nei giorni scorsi dalla suprema autorità in materia, il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta.
Ma è proprio così? Le fusioni bancarie non sono, né possono essere, semplici sommatorie di due realtà. La creazione di valore si ottiene il più delle volte grazie alla riduzione dei costi: si chiudono le filiali, si accentrano i servizi, si tagliano le sovrapposizioni, si trattano i clienti come le figurine del calcio. Le banche non sono solo capitali e sportelli (o conti online), ma hanno anche un’anima perché quella del banchiere non è solo una tecnica, ma è soprattutto un’arte, come la definiva Luigi Einaudi. Le banche non sono imprese come le altre; alla base della loro azione vi è la fiducia.
Guardiamo allora all’offerta di Bper per la Popolare di Sondrio. È una scalata che, se avrà successo, potrà avere due effetti contrapposti: da una parte la creazione di un ancor più grande gruppo bancario, il terzo in Italia; dall’altra la progressiva scomparsa di una banca che è stata, e per ora rimane, un esempio di efficienza, di vicinanza al territorio, di crescita, di sviluppo di quello spirito cooperativo che è stato uno dei punti forti del sostegno di quelle piccole e medie imprese che hanno costituito e continuano a costituire la spina dorsale dell’economia italiana.
La banca valtellinese, infatti, nonostante l’obbligata trasformazione in spa, ha continuato a mantenere lo spirito e le strategie di una banca popolare: attenzione al territorio, spirito di servizio a 360°, vicinanza al cliente, operatività a tutti i livelli. E mentre le grandi banche hanno continuato a chiudere sportelli (proprio Bper ne ha chiusi molti dopo l’acquisizione di Carige e di filiali ex-Ubi), la Popolare di Sondrio non ha smesso di aprirne di nuovi (l’ultimo proprio in questi giorni a Jesolo), ha continuato ad assumere personale (più di duecento persone lo scorso anno) ottenendo sempre risultati positivi sul fronte dei bilanci. Con una strategia controcorrente rispetto a quella che è stata chiamata “desertificazione bancaria”.
Lo scorso anno le banche italiane hanno chiuso 609 sportelli mentre ne hanno aperti 101 nuovi, con un saldo negativo quindi di 508 unità. Il numero degli sportelli è sceso sotto quota 20mila e solo nell’ultimo trimestre 230mila italiani si sono ritrovati senza una banca nel loro comune di residenza.
Stiamo raccogliendo i frutti della logica del mercato e della contendibilità. La logica che ha ispirato il decreto-legge varato nel gennaio del 2015 dal Governo di Matteo Renzi, un decreto che ha obbligato le dieci grandi banche popolari a trasformarsi entro 18 mesi in società per azioni, e che ha aperto la strada al gigantismo bancario.
Si può fare l’esempio di Ubi banca, conquistata e integrata in Banca Intesa nel 2021 dopo un’offerta pubblica di acquisto e scambio. Così come di Crèdit Agricole che ha conquistato e incorporato il Credito Valtellinese. E come Banco Bpm nato dalla fusione del Banco popolare di Verona con la Banca popolare di Milano.
Le grandi banche popolari sono così praticamente sparite, travolte dal mito delle dimensioni e da un interventismo politico che ha sacrificato decenni di gloriosa storia finanziaria. Certo, non sono mancati i passi falsi e i fallimenti, ma dovuti alla cattiva gestione e non alla forma giuridica degli istituti.
Le prime Banche popolari sono nate in Italia a partire dal 1864, sull’esempio dell’esperienza di pochi anni precedente delle «Volksbanken» tedesche. Il Credito popolare riscosse un immediato successo con la creazione, nell’arco di un paio di decenni, di centinaia di nuove Banche popolari in tutta la Penisola. Una crescita rapida dovuta all’inadeguatezza del sistema bancario di fine Ottocento nel rispondere ai bisogni dei piccoli commercianti, degli artigiani, degli agricoltori, spesso costretti a rivolgersi al mercato dell’usura.
La forma societaria cooperativa rispondeva sia ai principi di solidarietà e sussidiarietà, sia all’esigenza di stabilità della gestione. Le caratteristiche più rilevanti sul versante strutturale riguardavano i limiti al possesso azionario, la circolazione controllata delle azioni e soprattutto l’istituto del voto capitario: ogni socio esprime, cioè, un singolo voto indipendentemente dal numero di azioni possedute. Tale vincolo impedisce la formazione di posizioni predominanti all’interno della compagine sociale pur consentendo investimenti anche elevati e rendimenti che si caratterizzano per andamenti costanti nel tempo.
Con l’eventuale scomparsa della Popolare di Sondrio siamo quindi di fronte a un altro passaggio dal sistema cooperativo a quello capitalistico. Un passaggio non solo giuridico, ma con profonde implicazioni sul sistema bancario. Dimenticando peraltro anche la Costituzione che all’art. 45 afferma che “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione”.
Il sistema bancario dovrebbe valorizzare le potenzialità dell’economia e della società. I legami con il territorio e con la popolazione, come quelli storici delle banche popolari, hanno costituito dall’Ottocento a oggi un valore aggiunto importante anche nell’ottica della sostenibilità sociale. Un valore che rischia sempre più di essere disperso per l’effetto della corsa alle grandi dimensioni.
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