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Home » Musica e concerti » ROBERT PLANT/ “Saving Grace”: quelle canzoni che chiedono di essere ascoltate

  • Musica e concerti

ROBERT PLANT/ “Saving Grace”: quelle canzoni che chiedono di essere ascoltate

Carlo Candiani
Pubblicato 1 Ottobre 2025 - Aggiornato alle ore 09:03
Robert Plant

Robert Plant

Dal genio camaleontico dell’ex Led Zeppelin Robert Plant, arriva un disco immerso nei suoni del blues del Mississippi

Nei favolosi anni ’60 del rock britannico (e non solo) tra gli Scarafaggi e le Pietre Rotolanti fu fondamentale la grande presenza creativa e grintosa del Dirigibile: Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham, il trascinante quartetto dei Led Zeppelin, sono stati protagonisti imprescindibili nella storia della rivoluzione musicale delle nuove generazioni della seconda metà del Novecento.

Come i Rolling Stones, che duellavano con quei “fighetti pop” dei Beatles/b>, riscoprendo i ritmi elettrici del blues afroamericano, addirittura caduto nell’oblio proprio nei territori di origine, anche i Led Zeppelin, fondavano il loro rock sulla black music più esasperata, ancora più intensi di Jagger & co, tanto da essere considerati tra i padri dell’hard rock: campioni mondiali di riff elettrici, indimenticabili per tutti gli appassionati cultori dell’epopea rock.

Sorretti dalla voce stentorea e potentemente acuta di Robert Plant, dai geniali accordi di chitarra di Jimmy Page (di loro due anche la maggior parte del songbook del gruppo), dai giri di basso sincopati di John Paul Jones e dagli strappi martellanti ai tamburi di John Bonham, ecco una incredibile serie di titoli da antologia nell’epico suono della nuova musica dei teenagers dell’altro ieri, oggi boomers, ormai ingrigiti:

“Whole lotta love” (che divenne sigla del leggendario programma inglese “Top of the pops” ), “Black dog”, “Good times bad times”, “Ramble on”, “Kashmir”, “The song remains the same”, “Communication breakdown”, per citarne alcuni, ma soprattutto la grande suite di “Starway to Heaven”, un capolavoro tra i più indimenticabili nella storia del rock planetario, oggetto di una serie di leggende metropolitane riecheggianti accuse di esoterismo luciferino, volendo ascoltare le parole al contrario (!), e induzioni implicite al suicidio.

Un’accusa ricorrente a cui sottostarono (non senza qualche compiaciuta condiscendenza dagli stessi autori, per poi smentire sdegnosamente) altri brani di quel periodo da “Symphaty for the Devil” dei Rolling Stones, ai Beatles del periodo “Sergent Pepper”, per citare i più famosi (e meno credibili).

Il successo dei Led Zeppelin, iniziato alla fine dei ’60 e proseguito fino alle porte degli ’80, durò fino allo scioglimento del gruppo (anche questo genere di eutanasia artistica era tipico di molti dei gruppi di quella parabola storica). Scioglimento accelerato anche dalla morte del batterista John Bonham, stroncato dopo una notte di inesauribili bevute alcoliche.

Ci saranno tentativi (anche riusciti) di rinascita, che vedono protagonisti il duo Plant/Page con la pubblicazione nel 1995 dell’album “No quarter” e relativa trionfale tournée, concerti occasionali di altalenante qualità (una partecipazione al Live Aid del 1985, assolutamente dimenticabile) e il definitivo addio nel concerto tenuto il 10 dicembre 2007 allo 02 Arena di Londra con i superstiti della formazione originale e alla batteria il figlio d’arte di John Bonham, Jason. Delirio di pubblico e critica (nonostante l’ovvia fatica vocale di Plant nel sostenere l’originale partitura), e successo di vendite della testimonianza audio su cd.

Ma il genio camaleontico di Robert Plant non si smentisce: se la ricerca giovanile della musica blues era tutta incentrata nell’esuberanza elettrica e hard, ora è venuto il tempo della riflessione.

Pochi mesi prima dell’epica reunion londinese, ecco il primo segnale: una sorprendente collaborazione con una icona del folk americano Alison Krauss, e la registrazione dell’album “Raising sand”. Grande disco: immagine ieratica, una serie di brani dove l’ atmosfera folk viene ammorbidita da un pop di gran classe, due voci che si sorreggono a vicenda serenamente, e che saranno premiate da una serie di meritati riconoscimenti.

Tournée immancabile, dove Plant si diverte a trasformare alcuni episodi “zeppelliani” in altrettanti siparietti folk.

Ma l’ex zeppelin non si ferma e approfondisce la sua nuova cifra musicale: sono gli anni di nuove collaborazioni che sfociano nella inedita formazione dei “Band of Joy” e una nuova “avventura” con una grande voce femminile, un’altra protagonista del new folk americano: Patty Griffin.

Un decennio, il secondo del 2000, viene attraversato da concerti e tre album di media qualità e successo, ma la strada tra il folk traditional e gli strappi elettrici sempre più smorzati è ormai segnata.

In piena pandemia, si chiude l’esperienza con i “Band of Joy” e riconferma il duetto con Alison Krauss sfornando un altro bell’album : “Raise of roof”, naturalmente celebrato anch’esso da pubblico e critica.

Ma l’inquietudine per nuove collaborazioni e una predisposizione alla curiosità per le origini della musica gospel, folk e blues (quello del “delta” del grande fiume Mississippi) si fa sempre più stringente.

Ed ecco allora che nascono i “Saving Grace”, tra i quali compare un’altra voce femminile a sostegno, quella di Suzi Dian.

Robert Plant e Suzi Dian (Ansa)


È lo stesso Plant che lo racconta alla rivista specializzata “Rolling Stone”: “È una combinazione affascinante e stimolante di personalità e musicalità. E’ bellissimo. Davvero considero questa band come la mia saving grace, la mia grazia salvifica. Mi ha salvato la sanità mentale, dico sul serio”. E poi, ancora: “Il lavoro con Elison ha rappresentato una rinascita per me, un modo nuovo di pensarmi, di esprimermi come performer. Lo vedo più come un flusso continuo, un percorso in cui continuo semplicemente a fare quello che mi piace”.

Alla fine di questo settembre 2025, ecco il risultato di almeno cinque anni di lavoro con la band tra studi di registrazione e concerti. Il titolo dell’album porta il nome dell’ensemble: “Saving Grace”.

È un’immersione totale nelle atmosfere blues e traditional, quelle dei Pentangle, di Blinde Willie Johnson, dei monti Appalachi, della Carter Family, con un tocco anche di suoni mediorientali.

Grande musica, grandi interpretazioni rette da un gusto irraggiungibile, segno appassionato di un coinvolgimento assoluto, con riproposte di brani della tradizione dell’America più profonda che ti catturano e non ti mollano più.

Dolcezze canore a catinelle, cori celestiali e ritmi hillbilly trascinanti e saltellanti, da festa sull’aia.

Nel segno di una produzione musicale che non si accontenta di accompagnarti distrattamente nelle tue faccende domestiche quotidiane, ma che ti “chiede” di fermarti ad ascoltare e offrirti per una manciata di minuti la coscienza di una bellezza che la musica, se vissuta con professionalità e passione, può ancora dare.

È come se si schiudesse al nostro ascolto, il percorso di una ricerca esistenziale. E forse non a caso tra i brani, brilla una splendida versione di “Soul of man”, un antico blues che canta così: “Se qualcuno può dirmelo, qual è l’animo di un uomo? Non ho trovato nessuno che mi dica qual è l’anima di un uomo. Per quanto posso capire è più della sua mente. Ma quando Cristo si fermò nel tempio, il popolo rimase sbalordito: stava mostrando a medici e avvocati come sollevare un corpo da una tomba”.

Non perdete, quindi, questa occasione: sedetevi sul divano di casa (se ne avete uno) e godetevi in santa pace Robert Plant e i suoi Saving Grace.

Non ve ne pentirete.


Marina Peroni, chi è la moglie di Sandro Giacobbe al suo fianco nella malattia/ "È la mia vita"


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