La chiusura del 6° Festival Internazionale del Film di Roma dimostra un paio di cose: che l’obiettivo di organizzatori e selezionatori è ancora dalle parti della Festa (modalità con la quale era nata la rassegna), che serva da happening per la città più che da vetrina del miglior cinema esistente; e che la ricerca di un’identità che sappia accontentare gli amanti del cinema festivaliero – si legga d’autore – e chi vuole film più popolari porta a un livello produttivo e artistico solido, facilmente distribuibile, ma medio e mediocre, livellato.
A vincere il Marc’Aurelio d’oro come miglior film è stato Un cuento chino di Sebastian Borensztein, commedia argentina che ha messo d’accordo molti con i suoi temi sociali (l’integrazione tra culture) e la sua ironia bizzarra, vincendo anche il premio del pubblico; gran premio della giuria al contestato Voyez comme ils dansent dramma sentimentale firmato Claude Miller con Maya Sansa senza veli e in francese, mentre premi speciali al sopravvalutato polpettone The Eye of the Storm (grandi attori – Rampling, Rush, Davis – più romanzo premio Nobel più storia ricca di pathos, formula vincente) di Fred Schepisi e alla colonna sonora del simpatico Hotel Lux. I premi alle interpretazioni sono andati invece a Noomi Rapace per Babycall, horror ormai telefonato e confusissimo fatto di fantasmi e sorprese, e a Guillaume Canet per Une vie meilleure, probabilmente il miglior film in gara.
A bocca asciutta l’altalenante squadra italiana, composta da Marina Spada con l’irrisolto Il mio domani, Pupi Avati col decente (e per il suo cinema recente è un bel risultato) Il cuore grande delle ragazze, e i due bravi esordienti Pippo Mezzapesa, che racconta l’amore e la Puglia anni ’90 con Il paese delle spose infelici, e Ivan Cotroneo, sceneggiatore di grido che dirige con vitalità e intelligenza drammatica il suo omonimo romanzo La kryptonite nella borsa. Altalenante come la selezione ufficiale fuori concorso, un tempo fiore all’occhiello del Festival (passarono Into the Wild, The Departed, Leoni per agnelli, Onora il padre e la madre e molti altri) e oggi vetrina di film più o meno apprezzabili, più o meno di grido, come My Week with Marilyn di Simon Curtis o Too Big to Fail di Curtis Hanson.
Va molto meglio, come sempre, con le sezioni collaterali: Extra, vinto da Girl Model di David Redmon e Ashley Sabin, ha saputo gettare come al solito il suo occhio onnivoro, variopinto, appassionato e ricercato oltre le frontiere della produzione mainstream sapendo allo stesso tempo parlare col pubblico, tra documentari appassionanti, Caching Hell di Alex Gibney o The Dark Side of the Sun di Carlo Hintermann, e cinema appassionato, come Nuit Blanche di Frederic Jardin o Circumstance di Maryam Keshavaraz.; Alice nella città, vinto da En el nombre de la hija di Tania Hermida P. tra i film sotto i 13 anni e North Sea Texas di Bavo Defurne per quelli sopra i 13, trasmette ai ragazzi la passione per il cinema e può vantare una perla come Dalla collina dei papaveri di Goro Miyazaki, cinema animato adulto, maturo, emozionante, ricchissimo.
E poi il Focus, la sezione monografica dedicata a una nazione che stavolta ha visto al centro la Gran Bretagna, dimostrando agli spettatori del festival il grado elevatissimo di produzione inglese: dal ritorno di Terence Davies con The Deep Blue Sea a Page Eight di David Hare, dal discutibile Trishna di Michael Winterbottom al gioiello Tyrannosaur, esordio al fulmicotone dell’attore Paddy Considine, il film migliore del festival con la sua storia di disperate solitudine e accenni tra Loach e Leigh.
Per chiudere, nel sottolineare una kermesse discretamente organizzata ma che il suo punto debole proprio nella selezione dei film, dai rarissimi picchi di eccellenza, segnaliamo un film sconosciuto e misterioso, presentato come evento speciale: L’illazione, unica regia datata ’72 del musicista e showman Lelio Luttazzi, film semi-amatoriale nella forma ma ricchissimo e sorprendente nel tono, nel tocco, nella struttura che è possibile vedere nella versione restaurata su Rai 5. Un’occasione da non perdere per scoprire e rimpiangere un’artista che poteva essere anche un grande regista. Almeno in questo, i festival sono ancora fondamentali.