La tragedia dei piccoli bambini rom sta interrogando la stampa, la politica, le associazioni di volontariato di tutto il Paese. Ma in primo luogo interroga le coscienze di ognuno di noi. Cosa fare? Come poter aiutare? In che modo giudicare tutto quello che in questi giorni abbiamo visto e letto su questa triste vicenda?
«Per avere un giusto sguardo sulla questione bisognerebbe fare questo piccolo esercizio. Bisognerebbe immaginarsi di avere sulle ginocchia un figlio o un nipotino, e pensare che dopo poche ore non esiste più perché morto carbonizzato. Allora ci si renderebbe conto che innanzitutto non sono morti dei rom, ma delle piccole vite umane, che valgono infinitamente di più di tutte le polemiche politiche che si leggono in questi giorni, ivi comprese tutte le manifestazioni di cordoglio».
È il giudizio di Alberto Piatti, Segretario Generale di Avsi, associazione impegnata in 39 Paesi del sud nei quali, come si legge sul loro sito, si occupa di «educazione, sanità, igiene, cura dell’infanzia in condizioni di disagio, formazione professionale, sviluppo urbano, sicurezza alimentare, agricoltura, ambiente e micro-imprenditorialità».
«Questo è un modo per aiutarci a mettere a fuoco il problema nei termini reali – continua Piatti – Detto questo penso che l’integrazione non può essere uno slogan. È responsabilità di tutti e per poter “fare integrazione” bisogna conoscere. Noi affrontiamo molte volte il problema per pura reattività e non per conoscenza».
Cosa intende, esattamente?
«Parlo per esperienza diretta. Ho seguito dei bambini gravemente malati, sieropositivi, nell’ospedale degli infettivi di Bucarest. La maggior parte di questi erano abbandonati, mentre qualcuno riceveva delle visite dei loro genitori, tutti di etnia rom. Li venivano a visitare con regolarità, provenendo da un paese a un’ora di distanza, dove vivevano accampati in periferia. Conoscendo loro, costruendo con loro un rapporto di reciproca fiducia, abbiamo iniziato a realizzare insieme ciò di cui avevano bisogno: case un po’ più degne, scuole primarie e secondarie, strutture di formazione professionale. La soddisfazione ultima è che alcuni di quei bambini oggi si sono laureati».
Alcuni dicono che in realtà chi è destinatario di un processo di integrazione molto spesso è il primo a non volersi integrare.
Torno all’esempio di prima: finché non ci si piega a conoscere, e a conoscersi reciprocamente, si crea una barriera. Nostra a difesa di un presunto, e a volte reale, pericolo, perché alcune persone, indipendentemente dall’etnia, sono dedite a delinquere, e dall’altra parte un muro di pregiudizio al contrario. Al netto di questa drammatica tragedia, anche alcuni interventi precedentemente fatti nel comune di Roma, che hanno ricevuto il consenso delle persone che sono state toccate (come nel caso dello sgombero del Casilino 900), sono stati positivi. Si deve essere però ben coscienti che l’amministrazione pubblica, sia statale che comunale, non può e non deve arrivare ovunque. Ci deve essere una valorizzazione di realtà che operano sul territorio e che hanno come interesse il bene della persona, non tanto l’affermazione di un’ideologia dell’integrazione. È un interesse reale a conoscere il mistero della persona che si ha di fronte, qualunque condizione essa viva. Se c’è questa capacità sussidiaria di intervenire, adeguatamente valorizzata dalle pubbliche amministrazioni, forse l’integrazione non rimane solo uno slogan, ma diventa una strada praticabile.
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Si parla tantissimo di “piano rom”, soldi spesi, finanziamenti che devono arrivare. Quanto è un problema di regole e di istituzioni e quanto invece un problema culturale, umano?
Se si vogliono fare azioni senza rimanere dei puri idealisti ci vogliono i fondi. Il problema è come i fondi raggiungono il bisogno reale delle persone. Bisogna conoscerli uno a uno. In che condizioni vivono, perché i figli non vanno a scuola, proporgli di tornare nel loro Paese con una borsa per potersi reinserire e vivere dignitosamente almeno per un periodo. È un problema di conoscenza affettiva. Poi chi delinque delinque. E non c’è né rom, né bianco, né verde e né giallo.
Come allora aiutarsi a filtrare e a trattenere quel che vale della mole di informazioni e dichiarazioni che ci offre la stampa?
Bisogna guardare quei quattro poveri bambini come se fossero nostri figli o nostri nipoti. Allora il punto di vista diventa completamente diverso. Si capisce dove destinare i fondi, come gestirli adeguatamente per rispondere ai bisogni delle persone e le si accompagnano verso un inserimento degno nel consorzio civile.