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Home » Lavoro » SALARIO MINIMO/ Le conseguenze (e i cambiamenti) della direttiva Ue per l’Italia

  • Lavoro

SALARIO MINIMO/ Le conseguenze (e i cambiamenti) della direttiva Ue per l’Italia

La Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sul tema del salario minimo, che potrebbe portare cambiamenti anche in Italia

Natale Forlani
Pubblicato 30 Ottobre 2020
von der Leyen recovery fund

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen (LaPresse)

Come anticipato dalla Presidente Ursula von der Leyen, la Commissione europea, dopo un ciclo di consultazioni delle parti sociali e i pareri espressi dall’Europarlamento e dal Consiglio europeo, ha presentato una proposta di direttiva sul tema del salario minimo per i lavoratori dipendenti. La nuova direttiva, che dovrebbe essere attuata dai singoli Paesi entro due anni dalla sua approvazione, si propone il raggiungimento di tre obiettivi: ridurre il numero dei lavoratori che hanno un salario ritenuto insufficiente a garantire livelli dignitosi di vita (circa il 10% secondo le stime Eurostat 2018); ridurre le disuguaglianze salariali di diverso tipo, comprese quelle di genere; contribuire alla stabilizzazione della domanda interna di beni e di servizi.


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La direttiva non contiene specifiche indicazioni sui livelli a cui ancorare i salari minimi e rinvia alle prerogative degli Stati nazionali le modalità di attuazione, in particolare sul come articolare l’intervento della legge con quello dei contratti collettivi di lavoro nella definizione degli importi dei salari minimi e dei meccanismi di adeguamento. L’insieme degli articoli della direttiva rappresenta una sorta di linee guida per l’attuazione dell’istituto sulla base di alcuni criteri: livelli di crescita dell’economia, costo della vita e andamento della produttività. Impegnando gli Stati aderenti ad adottare misure che assicurino l’attuazione dell’istituto sul complesso dei lavoratori e rafforzando i controlli ispettivi e il monitoraggio dei risultati. Alle Istituzioni dell’Ue spetterebbe il compito di monitorare l’attuazione della direttiva.


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Un impianto flessibile che esclude meccanismi coercitivi nel prefigurare gli importi ottimali del salario minimo, anche se gli studi preparatori, e quelli che in parallelo ha sviluppato l’Ocse, lo collocano intorno al 50%-60% del salario medio previsto dai contratti collettivi. Del resto le condizioni di partenza registrano forti differenze tra i Paesi aderenti per i livelli dei salari minimi e per le modalità di attuazione. Tra i Paesi che lo hanno già introdotto tramite legge, 21 sui 27 aderenti, gli importi oscillano dai 311 euro mensili della Bulgaria, e da livelli di poco superiori ai 500 euro per il gruppo dei Paesi dell’est Europa, fino a valori di tre volte superiori per Germania, Francia, Regno Unito. Con una punta anomala, 2.141 euro, per il Lussemburgo. In molti Paesi, soprattutto per quelli neocomunitari, ma anche per la Spagna e il Portogallo, la scelta di intervenire per via legislativa per importi di salario minimo più elevati rispetto alla media citata in precedenza è spiegata dall’esigenza di rimediare alla limitata applicazione dei contratti collettivi di lavoro sul complesso dei lavoratori dipendenti. Giova ricordare che nei 6 Paesi che non hanno previsto l’introduzione per legge del salario minimo, tra i quali l’Italia, i livelli di tutela effettiva svolti dalla contrattazione collettiva superano abbondantemente la soglia del 70% sul complesso dei lavoratori, considerata negli studi preparatori come uno degli obiettivi da raggiungere con l’attuazione della nuova direttiva.


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Nelle consultazioni avviate nei mesi precedenti alla pubblicazione della proposta di direttiva, l’iniziativa promossa dalla Commissione sostenuta dalla precisa volontà della Presidente e del Governo tedesco che la ritiene una priorità per l’attività della loro presidenza di turno dell’Ue, è stata fortemente osteggiata dalle rappresentanze datoriali dei Paesi aderenti, e sostenuta dalla maggioranza di quelle sindacali a condizione di rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva nella definizioni dei livelli dei salari minimi.

Cosa potrebbe comportare per l’Italia l’attuazione della nuova direttiva? In prima istanza le flessibilità concesse ai singoli Stati per le modalità di attuazione non fanno prefigurare particolari criticità. Nonostante l’assenza di una legge specifica sul salario minimo, in Italia funziona da tempo una consolidata attuazione dell’articolo 36 della Costituzione in materia di giusta retribuzione, fondata sui pronunciamenti della Corte costituzionale, che l’identifica con i trattamenti previsti dai contatti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. E come tali estendibili erga omnes anche ai datori di lavoro e per i lavoratori non aderenti alle organizzazioni di rappresentanza datoriali e sindacali.


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Negli orientamenti, altrettanto consolidati, della magistratura, la valutazione della giusta retribuzione viene interpretata in senso ampio ed estesa al complesso delle tutele previste dai contratti collettivi. Il grado di copertura di queste tutele viene stimato intorno all’80% dei lavoratori dipendenti, tra i più elevati anche tra i paesi della Ue-15. Le principali rappresentanze datoriali e sindacali italiane sono comunemente ostili all’intenzione di alcune forze politiche, in particolare del M5s, di introdurre un salario minimo per via legislativa. Orientate, in alternativa, a sostenere l’applicazione erga omnes dei contratti collettivi nazionali per tutte le imprese e per tutti i lavoratori dipendenti, con una legge finalizzata a verificare l’effettiva rappresentatività delle associazioni che sottoscrivono i contratti collettivi. Ma non è affatto detto che questa unità di intenti si dimostri sufficiente per resistere alla tentazione di stabilire per legge un livello di salario minimo elevato, e come tale applicabile in deroga all’attuale obbligo per i datori di lavoro di applicare il complesso dei trattamenti previsti dai principali contratti nazionali di lavoro.


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Una tentazione che fa leva su diversi argomenti: sulla non opportunità di non affidare alle organizzazioni di rappresentanza maggioritarie una sorta di monopolio della contrattazione, l’obsolescenza nella definizione degli ambiti settoriali per l’applicazione dei contratti esistenti, la necessità di tutelare anche le diverse forme di prestazioni lavorative a cavallo tra lavoro autonomo e dipendente.

Una scelta esplicitamente propagandata dall’attuale ministra del Lavoro Catalfo, con la promessa di assicurare sgravi contributivi per le imprese, in coincidenza con l’attuazione del salario minimo. L’evoluzione imposta dalle Istituzioni europee è destinata inevitabilmente ad aprire una nuova fase delle relazioni industriali e di innovazioni nelle forme della contrattazione collettiva, già in evidente difficoltà nel gestire le implicazioni dell’attuale crisi economica. Si preannunciano cambiamenti, ma non è affatto scontato che i risultati siano migliori rispetto a quelli del passato.


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