Per evitare che la sanità affondi serve un patto tra i partiti e una commissione. Ma anche un ruolo più efficace dello Stato, dice Luca Antonini

Una commissione bipartisan. È questa la proposta che viene da Luca Antonini, vicepresidente della Corte Costituzionale, che oggi sarà al Meeting di Rimini per parlare di sanità (“La salute è un bene per tutti”) con il ministro della Salute Orazio Schillaci.

Occorre “identificare le cose urgenti da fare per salvare il carattere universale del nostro sistema sanitario”, spiega il giurista. Ma prima di impiegare il cacciavite, bisogna cambiare mentalità, tornando allo stesso approccio riformatore, trasversale e fedele ai princìpi della Costituzione, che ha segnato due momenti importanti della storia del welfare nel nostro Paese: quello della Costituente e legge che, nel 1978, istituì il SSN.



Professor Antonini, i costi di un sistema sanitario universalistico come il nostro sono compatibili con i parametri e i vincoli di bilancio europei?

Il problema non sono tanto i parametri europei, quanto le scelte del passato. La nostra spesa sanitaria nel periodo fra il 2014 e il 2019 è stata tagliata di 40 miliardi di euro. I tagli alla sanità hanno una caratteristica: sono silenziosi. Diventano rumorosi dopo anni. Oggi sentiamo il rumore di quei tagli.



Infatti sempre più italiani rinunciano alle cure.

Lo ha certificato la Corte dei Conti: lo scorso anno c’erano 2 milioni di persone hanno rinunciato a curarsi perché non avevano i soldi per farlo. Non c’è nulla di più umiliante e contrario al principio personalistico stabilito in Costituzione della povertà sanitaria. Questo determina una progressiva americanizzazione del nostro sistema sanitario, secondo il rischio paventato da Giorgio Vittadini nei giorni scorsi.

Tocca invertire la rotta.

La rotta è stata già invertita, perché attualmente la sanità dispone di più risorse. Ma non è sufficiente. La vera inversione di rotta che serve è culturale, di mentalità.



È quello che lei e Stefano Zamagni sostenete nel vostro libro, Pensare la sanità. Terapie per la società malata.

È da troppo tempo che mancano idee su come tornare a far funzionare il nostro sistema universalistico. Esso si fonda su due momenti importanti della nostra storia. Il primo in Assemblea costituente, dove tre medici, Caronia, Merisi e Cavallotti, che appartenevano rispettivamente a Dc, Psi e Pci, insieme – dunque in modo trasversale – fecero capire l’importanza di sancire in Costituzione il diritto alla salute come diritto fondamentale. È l’unico diritto stabilito espressamente come fondamentale nella Costituzione italiana.

E poi?

L’altra svolta ci fu nel 1978, quando Tina Anselmi, in un momento difficilissimo per l’Italia, cioè a pochi giorni dal delitto Moro, si era nel quarto Governo Andreotti che aveva l’appoggio esterno del Pci, quindi anche qui dentro un consenso trasversale, riuscì a far approvare la legge che istituiva il servizio sanitario universale, abbandonando il sistema ormai iniquo delle mutue che c’era in precedenza.

Risultato?

Di grandissima portata. Dal 1978 al 2018 la vita media degli italiani è aumentata di 10 anni proprio grazie al servizio sanitario universale. La lezione è chiara. Ciò che servirebbe anche oggi per salvare la sanità è un accordo trasversale tra le forze politiche.

Con quale obiettivo?

Si dovrebbe istituire una commissione, con l’apporto di tutti i partiti, per identificare le cose urgenti da fare per salvare il carattere universale del nostro sistema sanitario.

Quali sono, secondo lei?

Servirebbe innanzitutto recuperare una dimensione umanistica del SSN, che dovrebbe curare la persona, mentre oggi si cura solo la malattia e spesso ci si disinteressa della persona, che non viene presa in carico. Poi occorre riqualificare la professione medica: un giovane non è invogliato a fare il medico, e se diventa medico spesso decide di andare all’estero, in Austria, in Gran Bretagna negli Stati Uniti. Questo perché la professione non è più attraente. Certe specialità, come la medicina d’urgenza, oggi rimangono deserte, mentre altre, come dermatologia o chirurgia plastica, sono affollate.

Come si potrebe intervenire?

Servirebbero retribuzioni differenziate.

Vada avanti.

Occorrerebbe ridurre la pesante responsabilità che oggi incombe sul medico dal punto di vista penale: oggi risponde anche per colpa lieve, questo fa sì che moltissimi medici finiscano inquisiti, rimangano per anni sotto lo scacco di un’indagine penale ma alla fine finiscano quasi sempre assolti: alla condanna definitiva arriva solo il 3%.

Schillaci ha proposto che vi sia solo la colpa grave. È d’accordo?

È una scelta intelligente che andrebbe sostenuta. Anche perché questo eccesso di responsabilità penale che grava sul medico determina un aggravio, in termini di medicina difensiva, che costa allo Stato 10 miliardi l’anno. Andrebbe lasciata soltanto la responsabilità civile, dunque il diritto al risarcimento per il cittadino solo in caso di malasanità.

Vuol dirci, tra le altre, una lezione che viene dalla pandemia Covid-19?

Nel momento in cui mancavano le terapie intensive, che erano state fortemente ridotte per effetto dei tagli, si è deciso di privilegiare i giovani rispetto agli anziani. Non c’è nulla di più contrario di questo ragionamento al principio personalistico stabilito dalla Costituzione.

Servono soldi, che mancano.

Non possono e non devono mancare. In alcune recenti sentenze, in una in particolare (195/2024, ndr), la Corte Costituzionale ha detto che la spesa per la sanità è “costituzionalmente necessaria”. Un principio che il governo recentemente ha accettato, perché nelle recenti misure di contenimento della spesa pubblica ha mirato a salvaguardare la spesa sanitaria. Nel 2026 avremo 140 miliardi di Fondo sanitario nazionale, è una cifra importante.

Le disparità tra regioni come vanno affrontate?

Occorrerebbe un ruolo più efficace dello Stato centrale. Il federalismo sanitario a mio avviso è una ottima cosa, perché abbiamo modelli sanitari diversi nelle quattro regioni che costituiscono un’eccellenza a livello mondiale ossia Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana. Il problema non sta nelle rispettive differenze, che invece sono il loro punto di forza, perché l’offerta di salute viene calibrata sulle specificità del tessuto locale e della tradizione di cura. Sta invece nel fatto che lo Stato centrale non governa adeguatamente tutte le regioni. Dovrebbe avere a disposizione strumenti per poterlo fare, anche intervenendo nelle regioni che sono inefficienti.

Infatti alcuni anni fa la Corte Costituzionale ha fatto una sentenza in cui ha stigmatizzato l’inefficacia del commissariamento della sanità in Calabria. 

Sì, perché in 11 anni di commissariamento lo Stato anziché risolvere i problemi li aveva gravati. Questo non non deve avvenire. Va bene il regionalismo, ma occorre uno Stato forte in grado di governarlo. Quando interviene a commissariale una regione, lo Stato deve essere efficiente, mettendo a disposizione le sue migliori energie, non le peggiori.

(Federico Ferraù)

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