Dopo l’Ungheria, anche la Slovacchia, nazione del cosiddetto “Gruppo di Visegrád”, cessa di fornire armi a Kiev. “La posizione del mio Governo – ha affermato il 26 ottobre scorso il presidente Fico, vincitore della recente battaglia elettorale – è che la cessazione immediata delle operazioni militari è la migliore soluzione”.
Si tratta di una dichiarazione che, nella configurazione del conflitto sul campo, è un deciso appoggio alle armate russe. Ma ciò che è storicamente significativo è il fatto che essa “batte il tempo” della crescente disgregazione delle relazioni internazionali: anche le piccole potenze, europee o no che siano, trovano occasioni per rimarcare la loro autonomia dalle aggregazioni costruitesi nel tempo di una crescente globalizzazione economica, che si è accompagnata a una sempre più crescente competizione tra i sistemi economico-sociali nazionali, contrariamente a quanto previsto dai teorici del mercato perfetto che s’inverava nella fine della storia.
I sistemi economico-sociali nazionali sono sì fortemente interrelati, ma il tempo della politica continua a risuonare, perché non vi è nulla di più diseguale del capitalismo e delle storie sociali con cui la circolazione delle merci e quindi delle classi dominanti si è configurata storicamente.
Le classi politiche europee, è dinanzi a tutti, non riescono a trovare una loro configurazione stabile nel complesso barocco delle organizzazioni internazionali – dall’Ue all’Onu – che dovrebbero fare del liberalismo economico dispiegato la coltre protettrice della pacificazione, anziché del conflitto crescente che vediamo sgranarsi sotto i nostri occhi.
La centralizzazione capitalistica si riveste, invece che dell’armonia di una competizione soave, dei panni dell’economia di guerra e questo complesso militare-industriale non solo non unifica dall’alto potenze riottose che non si sottomettono più ai vecchi rapporti di forza costruiti in un tempo di assenza di conflitto: si costruiscono, invece, in un crescendo nazionalistico, sempre nuove occasioni per configurarsi come potenze autonome e vanagloriose.
La Polonia non dismette il suo confronto con la Germania, ora che il conflitto con l’Ucraina l’ha candidata a protagonista del commercio mondiale di armi e di costruzione di una potenza finalmente unita, inedita nella storia europea.
Non è un caso se lo Stato di Israele è posto dinanzi a una minaccia vitale per la sua stessa esistenza: è sottoposto a una potenza asimmetrica di inaudita violenza e barbarie fatta non più di Stati, ma di migliaia di terroristi che vogliono eliminare gli ebrei. Inizia una nuova era di genocidi tenacemente perseguiti. Essa iniziò già a cavallo tra Ottocento e Novecento, prima con gli armeni e poi con gli ebrei. Può ritornare di nuovo oggi, di nuovo con gli ebrei e gli armeni. La ragione è complessa, ma lineare. Siamo nella frammentazione delle relazioni internazionali e per comprendere ciò che sta avvenendo occorre pensare a quali siano le risorse politiche che consentono di agire dilatando la potenza delle piccole e medie nazioni non solo europee, ma soprattutto del Grande Medio Oriente.
Nel Grande Medio Oriente le nazioni vengono ben prima degli Stati e l’orda (quella descritta negli ultimi decenni dell’Ottocento in forme ancora oggi insuperate nell’opera meravigliosa La Società antica di Lewis Henry Morgan) continua a essere una forma di aggregazioni del dominio politico: e l’orda è incunabolo di violenza.
In Europa e negli altri continenti il nazionalismo – che sempre si accompagna con diverse forme di populismo – è la risorsa fondamentale delle classi politiche nazionali svincolate ormai dal dominio anglosferico, dopo la ritirata di quest’ultimo dall’Afghanistan e il fallimento di quella specifica forma di lotta al terrorismo iniziata dal 2001, come ha recentemente ammesso lo stesso Biden.
E come sempre nella storia, in tutta questa vicenda che inizia, come sempre, dalla storia francese e tedesca e ha ora nel neo-ottomanesimo una nuova continuazione, simile a quella degli anni successivi alla Prima guerra mondiale, il nazionalismo crescente si accompagna a un antisemitismo che suona come una minaccia per la stessa civiltà mondiale, nell’orizzonte bellico che si profila minaccioso sull’asse che va dal Baltico al Canale di Sicilia passando per il Mar Nero.
Le responsabilità delle forze intellettuali anglosferiche è stata immensa nel creare questo esplosivo miscuglio tra nazionalismo, populismo e antisemitismo. Basta sfogliare le pubblicazioni delle università inglesi e statunitensi e ricordare capolavori come La macchia umana di Philip Roth.
Come sempre non si ricorda mai che durante la Seconda guerra mondiale il Gran Muftì di Gerusalemme fu ospitato da Hitler, per ritornare poi protagonista dopo la guerra nelle stesse terre in cui oggi si consuma il nostro dramma. Tutto ritorna: sarà molto più terribile.
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