Nell'Ue sono troppo forti le divisioni: diventa quindi impossibile riuscire ad affrontare le sfide strategiche che incombono

Dazi, difesa, bilancio; l’Unione Europea si trova impegnata su tre fronti di valore strategico e le sue truppe procedono in ordine sparso, divise da impostazioni politiche, interessi economici e debolezze interne dei singoli Stati. Così i Governi nazionali se la prendono con la Commissione e la Commissione getta la colpa sui Governi. Viene a galla in modo forse più netto del passato il vizio di fondo: per superare i tre scogli e affrontare la nuova sfida americana ci vorrebbe una vera Unione che per ora non c’è e nessuno sa se ci sarà in un prossimo futuro.



Sui dazi i messaggi rassicuranti dei giorni scorsi vengono rimessi in discussione dall’ultimo balzo d’umore di Donald Trump che prima di andare a letto ha mostrato di nuovo il volto dell’arme e sembra che voglia lotta dura senza paura. Ci sono divisioni anche nell’Amministrazione e le “colombe” come il segretario al Tesoro Scott Bessent, che cerca di mitigare la posizione intransigente del Commander in chief, vengono contraddette in continuazione dai falchi che volano attorno alla Casa Bianca e penetrano nell’Ufficio ovale. Così continua la lotteria: l’Ue si accontenta del 10%, ma sull’auto pesa il 25%, su acciaio e alluminio addirittura il 50%; Trump non molla, anzi rilancia al 20% su tutto senza ridurre i dazi già imposti.



Fino a che punto spingere il confronto? Fino al punto di rottura con gli Stati Uniti? Emmanuel Macron pensa che sia la strada giusta, quindi l’UE deve usare tutte le armi che ha, quelle economiche e persino quelle strategico-militari. Dunque, tasse sulle multinazionali americane, da Google a Netflix e tutte le Big Tech, ma anche limiti ai colossi militari, insomma per dirla con una battuta più Eurofighter e meno F35, più testate nucleari anglo-francesi meno bombe americane.

Il braccio di ferro potrebbe diventare un vero e proprio ricatto: che succede se qualche Governo rifiuta lo spazio aereo ai jet americani che bombardano l’Iran? O se viene rimesso in discussione l’uso delle basi a stelle e strisce in territorio europeo che non fanno capo alla Nato, ma solo al Pentagono come Sigonella in Sicilia?



Non sono più solo ipotesi di scuola, se ne discute anche negli ambienti della difesa americana e tra gli analisti di politica estera che invitano la Casa Bianca a non sottovalutare l’importanza strategica dell’Europa anche per salvaguardare gli interessi americani.

La linea dura non piace alla Germania di Merz, all’Italia della Meloni, alla Polonia di Tusk, ma nemmeno all’Olanda e ai Paesi del Nord. Creare un vallo atlantico sarebbe pericoloso anche per gli europei. Ciò vale certamente nel campo della difesa, così come nella finanza.

Prendiamo Amsterdam: ha tratto beneficio dalla Brexit e si è data regole favorevoli alle impresse paragonabili a quelle americane, anzi spesso sono persino più vantaggiose, però la borsa olandese non pensa certo di tornare all’epoca dei tulipani. E se Berlino fosse tentata dalla sirena francese, ebbene prima dovrebbe attendere i risultati della svolta di Friedrich Merz che ha annunciato un piano decennale fino a mille miliardi di euro (500 dei quali in infrastrutture approvati dal Bundestag a marzo), la metà di quanto proposto dalla Commissione europea.

Il bilancio da 2mila miliardi di euro si presenta subito difficile da approvare. L’impegno per i sette anni tra il 2028 e il 2034 è il doppio rispetto al settennio precedente. Il bilancio è più centralizzato e riduce i rapporti diretti con enti locali e gruppi d’interesse. Prevede imposte sulle imprese e sui servizi che non sono certo popolari (dai rifiuti al tabacco) e crea un fondo per la competitività da 409 miliardi di euro.

Ogni Paese membro adotterà un piano di partenariato nazionale e regionale (NRPP) che integrerà tutte le misure di sostegno, sia per i lavoratori, gli agricoltori o i pescatori, le città o le zone rurali, le regioni o il livello nazionale. Questi piani identificheranno gli investimenti e le riforme necessari e saranno elaborati e attuati in stretta collaborazione tra la Commissione, gli Stati, le regioni, le comunità locali e tutte le altre parti interessate.

La Germania che può spendere ha deciso di farlo soprattutto in casa propria e in fondo il cancelliere ha le sue buone ragioni nel dire no. Non solo: il suo Governo non ha certo numeri tali da garantirsi stabilità. Peggio ancora la Francia. Il Primo ministro François Bayrou ha appena annunciato un bilancio lacrime e sangue che prevede non solo tagli alla spesa, ma di lavorare di più abolendo due festività, il lunedì di Pasqua e l’8 maggio giorno della resa nazista nel 1945.

Una mossa coraggiosa che potrebbe diventare avventata visti gli equilibri politici francesi: le opposizioni di destra e di sinistra sono pronte a fare fronte comune e l’opinione pubblica che ha fatto delle vacanze lunghe un modo d’essere del modo di vita francese, è già in tumulto. Senza dimenticare che la Francia, come l’Italia, è in procedura d’infrazione per eccesso di deficit pubblico e i tagli previsti potranno portare il disavanzo soltanto al 4,6% nel 2026.

Roma ha subito chiesto modifiche al progetto di bilancio europeo, vuole l’uscita dalla procedura e la sospensione del Patto di stabilità per sostenere le imprese, mentre il Governo s’arrabatta per usare risorse extra come quelle del PNRR o gli stanziamenti per il Ponte sullo Stretto anche per le spese militari. Se poi ci allarghiamo alla Spagna di Pedro Sánchez che porge orecchio alle sirene francesi, il suo Governo di minoranza è ormai agli sgoccioli.

Le debolezze politiche più ancora che economiche e i conflitti tra interessi nazionali divergenti e con una Commissione che sembra piena di tante intenzioni, ma senza il potere di tradurle in realtà, ci introduce alla questione principale: c’è una Unione di nome, non di fatto, che decide all’unanimità tra 27 Paesi molto diversi tra loro. È vero che difesa, commercio, competitività sono tre sfide comuni, ma al momento di scegliere il veto di uno solo può bloccare tutti gli altri.

Certo, oggi Trump ha un numero di telefono da chiamare quando vuole discutere con l’UE, quello di Ursula von der Leyen, tuttavia per quanto svalvolato voglia essere (o sembrare), The Donald si rende conto che non ha davanti uno Stato e un Governo con l’autorità e il potere di decidere. L’UE potrà anche trovare una linea comune, ma sarebbe comunque una linea di galleggiamento.

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