Di fronte all'imposizione di dazi al 30% da parte di Trump, l'Ue reagisce con un lezione su quello che il Presidente Usa causerebbe al suo Paese
È imbarazzante la reazione all’attesa e prevedibile aggressione di Trump da parte del “main stream” politico-economico europeo, ossia, essenzialmente, di quelle correnti d’opinione che, al di là di ogni evidente inconsistenza, considerano ancora gli equilibri espressi nella Commissione Ursula 2… qualcosa di accettabile.
È imbarazzante e sciocco, perché si nutre di due ingredienti fondamentali: la ripetizione quasi mantrica di ogni sorta di contumelie all’indirizzo del “Troglodita Biondo” (che peraltro le merita tutte quanto ai suoi modi e ai suoi probabili deliri, non quanto ai risultati del suo agire, per ora) che non risolve un bel nulla; e l’altrettanto nevrotica ripetizione di tutte le ragioni tecnico-economiche secondo le quali Trump sta nuocendo, con questa storia dei dazi, proprio agli interessi americani che dice di voler difendere.
Ammesso e non concesso, quest’argomentazione dovrebbe inquietare i supporter di Trump, e ciò accadrà prima o poi se davvero questi dazi dovessero ritorcersi contro il piano trumpiano di “fare l’America di nuovi grande”: quindi basta dare tempo al tempo…
E intanto? Intanto noi Paesi esportatori dell’Unione europea ce ne stiamo qui, mezzi tramortiti, davanti alla gradassata dell’inquilino della Casa Bianca e trascuriamo i piccoli particolari positivi di quel che sotto l’egida trumpiana è già accaduto all’economia americana, senza chiedere il permesso alla Fed o a Mario Draghi, e che hanno rafforzato e non indebolito il Presidente Usa. Tentiamo un timido riepilogo.
Dopo il pesante calo in aprile (-12%), seguito alle prima maramalderie del Troglodita, l’S&P 500 – l’indicatore più significativo di Wall Street – ha recuperato completamente il terreno perso e, al 27 giugno, ha toccato un nuovo massimo superando i 6.173 punti. Gli analisti rilevano aspettative positive da parte dei mercati: è un fatto.
Il tasso di disoccupazione è sceso a circa il 4,1%, con una media intorno ai 150.000 nuovi posti di lavoro creati ogni mese. Le politiche trumpiane non c’entrano niente (forse) con questi buoni risultati, ma la concomitanza è ottimale. E un sondaggio sul tema fatto dal Wall Street Journal indica una diminuzione del rischio di recessione (dal 45% al 33%) che la gnagnera ursuliana evoca ogni due per tre.
Intanto, dal 5 gennaio ad aprile, il tasso medio dei dazi Usa è prima salito dal 2,5% al 27% (valore più alto in oltre un secolo), per poi stabilizzarsi intorno al 15,8% a giugno: e i dazi oggi stanno generando il % delle entrate federali (la percentuale storica è il 2%). La Cina si è beccata una sventagliata di editti deliranti, fino al 145% di prelievo, poi però ridotti al 30% e sta facendo molti meno piagnistei dell’Europa, sicura com’è del fatto suo, ossia che il 30% di tariffe, meno il deprezzamento del dollaro sullo yuan, farà il solletico al suo export.
Il Brasile ha subito una batosta del 50% e sta trattando, senza troppi strepiti; e poi sono stati alcuni accordi o preaccordi, come quelli con il Canada, l’Uk e l’India, in una modalità consensuale, sia pur forzosamente… Insomma, non è un quadro economico tutto rose e fiori, ma è ben diverso dall’annuncio di imminente disastro di cui blaterano a Bruxelles.
Si aggiunga poi un altro elemento, ossia l’effetto delle mosse di Trump sul fronte geopolitico. Al netto dell’insuccesso conclamato nella mediazione Russia-Ucraina e del dubbio risultato del pressing americano su Netanyahu, Trump ha ottenuto un riarmo europeo che arrecherà alle sue casse un doppio vantaggio: meno spese dirette nella difesa, e più vendite per le industrie americane degli armamenti.
Insomma, è evidente che per l’Unione europea – che avrebbe potuto giocare d’anticipo – non c’è alcuna altra strada se non quella di trattare. Con una sola voce, evidentemente, perché tra le sovranità cedute dagli Stati dell’Unione a Bruxelles c’è appunto anche quella sulle politiche commerciali. Ma una sola voce che sappia veramente esprimere gli interessi di tutti. E… siamo sicuri che questa Commissione sappia e voglia rappresentare con la sua voce, peraltro flebile, tutti i punti di vista? Siamo sicuri che su questa materia sappia ricomporre una “maggioranza” che dovrebbe essere molto più ampia di quella che sorregge, gracilmente, la Commissione stessa?
Per carità, la Presidente l’ha detto: “L’Unione europea rimane pronta a continuare a lavorare per raggiungere un accordo” entro il primo agosto. Ma ha poi ritenuto necessario ribadire che “imporre dazi del 30% sulle esportazioni dell’Ue interromperebbe le essenziali catene di approvvigionamento transatlantiche, a scapito di imprese, consumatori e pazienti su entrambe le sponde dell’Atlantico”.
Bene: vedremo in quale conto Trump terrà l’ennesima lezioncina recapitatagli da Bruxelles, visto che di questo si tratta: della pretesa di convincere la Casa Bianca che i dazi fanno male anche all’America. Sarà, ma è l’America che ce li impone, quindi forse dovremmo rispondere su un piano diverso. Cosa potremmo fare noi europei che leda gli interessi americani quanto questi dazi lederebbero i nostri? Siamo in grado ad esempio di dire ai “Big Tech” che la pacchia fiscale in Europa finirà?
Sarebbe forse – a riuscirci – un poco più efficace che cercare di convincere Trump a non fare Trump.
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