Non è semplice per l'Ue rispondere ai dazi degli Stati Uniti. La Cina potrebbe cercare di approfittare della situazione
“Ruination day”. Altro che liberation day, il giorno della rovina non della liberazione. Il titolo dell’Economist con in copertina un Donald Trump intento a tagliar fuori gli Stati Uniti dal resto del mondo rappresenta esattamente quel che è successo la scorsa settimana. E il sottotitolo coglie il senso di quel che occorre fare da oggi in poi: limitare il danno globale. Che ci sia è un dato di fatto, come ridurlo nessuno lo sa.
La Cina ha reagito subito: 34% su tutti i prodotti americani. Ma Xi Jinping si stropiccia le mani e calcola già quanti Paesi volteranno le spalle agli Usa e si rivolgeranno verso Pechino. Basti pensare al Vietnam che non è mai stato amico della Cina e che si era sempre più “americanizzato”: oggi è tra i Paesi maggiormente colpiti. L’Unione europea si è presa tempo e annuncia la sua risposta a tappe. Mercoledì 9 acciaio e alluminio, tra la fine del mese e i primi di maggio auto e dazi cosiddetti reciproci.
A Bruxelles e nelle singole capitali girano le proposte più diverse. Francia e Belgio vorrebbero colpire i servizi là dove gli Stati Uniti hanno un surplus consistente con il resto del mondo e con l’Ue: esportano circa 400 miliardi di euro nell’Unione e ne importano poco più di 292. Trump, nel suo conteggio da scuola elementare, ha furbescamente escluso i servizi. Se lo avesse fatto il deficit americano con l’Ue si sarebbe ridotto a una cinquantina di miliardi. Dividendo questo disavanzo totale per 800 miliardi pari all’insieme delle importazioni dall’Ue (beni più servizi) avremmo una tariffa poco superiore al 6% non il 20% applicato.
Il guaio è che colpendo i servizi verrebbero penalizzate le banche, i fondi d’investimento e le Big Tech. Ma finanza e digitale sono proprio i punti deboli dell’Ue. Dunque gli europei si farebbero ancor più male.
Un’altra arma di distruzione di massa è la svalutazione dell’euro, guidata dalla Bce che porterebbe i tassi d’interesse ufficiali ancora più in basso. Dunque, una politica monetaria più che aggressiva, con la banca centrale che lancia una vera e propria battaglia contro il dollaro. Le esportazioni europee ne sarebbero avvantaggiate, ma scatenare una guerra monetaria insieme alla guerra commerciale non sembra molto saggio.
Una terza soluzione, quella che va per la maggiore e sembra sostenuta dall’Italia e dalla Germania, è dare una risposta di facciata, perché rispondere si deve se non altro per dimostrare di non avere paura, e nello stesso tempo avviare trattative. Per ora non c’è nessun segnale che Trump voglia negoziare, ma adesso il Presidente, con in mano le sue mazze da golf, sta pregustando l’effetto choc da lui volutamente provocato.
Sembra chiaro che, volente o nolente, l’Amministrazione americana dovrà trattare, così come fece nel suo precedente mandato, quando colpì Canada e Messico che ancora facevano parte dell’area di libro scambio nordamericana. Anche allora dopo la bastonata iniziale si cominciò a parlare; era il 2018, ma vennero impiegati quasi tre anni prima di arrivare a un accordo. Quanto ci vorrà per trovare intese su scala mondiale o anche soltanto europea? Dieci anni almeno? Un decennio o forse più in cui il commercio mondiale si ridurrà, non per tutti allo stesso modo, ma addio al libero scambio.
Una risposta “strutturale” è la ricerca di nuovi sbocchi. L’Ue deve ancora chiudere il trattato con il Mercosur e speriamo che vada finalmente a buon fine. Ma per quanto interessanti siano i mercati sudamericani, quelli nordafricani o quelli dei Paesi arabi nel Golfo Persico, il centro dei commerci mondiali è in Asia e lì bisognerà andare. Con il rischio di cadere nelle braccia della Cina.
Sarebbe opportuno a questo punto aprire subito un negoziato con Pechino, stabilendo regole basate sulla reciprocità e tenendo fuori qualsiasi intrusione politica. Meglio farlo adesso evitando così che cominci una corsa anarchica delle imprese che si muoverebbero senza protezioni, comprese le grandi che in rapporto a quelle cinesi sono ben più piccole.
La Commissione ha fatto una stima dei tre pacchetti di dazi annunciati finora da Trump. Quello contro alluminio e acciaio colpisce 26 miliardi di euro di esportazioni dell’Ue e porterà a 6,5 miliardi di euro di nuovi dazi. Quello contro le automobili e la componentistica ammonta a 66 miliardi di euro di esportazioni dall’Ue e costerà 16,5 miliardi di euro di nuovi dazi. I cosiddetti “dazi reciproci” riguardano 290 miliardi di euro di merci europei esportate con un onere di 58 miliardi di euro.
In Italia si sente dire: andiamo per nostro conto. Anche chi non vuole delegittimare l’Ue pensa di poter spuntare delle eccezioni nazionali. Il paradosso è che se l’Italia si muovesse da sola e gli Usa applicassero sempre la solita formuletta, il risultato sarebbe un dazio del 32%, più della Germania (il 25%) e della Francia (il 14%). Questo perché l’Italia ha esportato verso gli Usa più degli altri due grandi Paesi dell’Ue.
La mazzata di Trump cade su un’economia italiana in rallentamento. La Confindustria ha tagliato allo 0,6% il Pil previsto quest’anno e lamenta la continua riduzione della produzione industriale (siamo ormai a una discesa che dura da due anni). Anche la Banca d’Italia prevede uno 0,6%, ma è un po’ più ottimista sugli investimenti, mentre il Centro studi della Confindustria ritiene che si ridurranno ancora. Il ministero dell’Economia sta facendo i propri calcoli, ma è chiaro che dovrà rivedere i punti di riferimento della politica di bilancio da discutere con la Commissione europea. E la revisione sarà ovviamente al ribasso. L’Italia non ha risorse sufficienti per sostenere da sola le aziende che saranno colpite dalla crisi da dazi.<
I conti non riguardano solo la lista del dare e dell’avere, ma occorre calcolare l’impatto finale sull’economia che è fatta di interconnessioni strette tra settori e Paesi, ed è influenzata da fattori psicologici. Il crollo delle borse sarà pure momentaneo, tuttavia segna una svolta netta nelle aspettative di imprese e famiglie. Non sarà facile invertirle, speriamo che non diventi impossibile.
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