Il quadro dei dazi Usa appare più definito. L'Ue ha la possibilità di rispondere senza pensare a compensazioni per i settori più colpiti
A più di quattro mesi dal “Liberation day”, il quadro dei dazi Usa applicati alle merci provenienti dal resto del mondo appare più definito, ma non del tutto certo. E i più penalizzati dalle tariffe americane sembrano essere i Brics.
Secondo Mario Baldassarri, ex viceministro dell’Economia e Presidente del Centro studi EconomiaReale di Roma e dell’Istao di Ancona, «i dazi di Trump non hanno alcun fondamento di teoria economia e di esperienza concreta nella diffusione del libero commercio degli ultimi 50 anni. Il che vuol dire che vengono utilizzati come strumento politico, anche perché sul piano economico hanno degli effetti negativi sulla crescita e sull’inflazione negli Stati Uniti. Di fatto la Casa Bianca, tramite i dazi, usa il bastone morbido con gli amici e quello duro con i nemici».
I nemici sarebbero i Brics, viste le tariffe previste per Brasile (50%), India (50%), Sudafrica (30%) e Cina (30%)?
Trump poggia tutta la sua azione sull’antico principio romano: divide et impera. Pur essendo i Brics nemici, dal momento che hanno l’ardire di costruire un ordine mondiale basato non più sul dollaro, sulla Banca mondiale e sul Fondo monetario internazionale, ma su Istituzioni internazionali da loro costruite, in alternativa e in concorrenza con quelle occidentali, il Presidente Usa fa comunque distinzioni al loro interno.
Non c’è quindi, una linea definita tra amici e nemici.
No, basta pensare ai dazi riservati al Brasile, quasi palesemente dovuti all’arresto dell’ex Presidente Bolsonaro. Si tratta di una posizione che mi lascia alquanto attonito, considerando che arriva dalla prima carica istituzionale degli Stati Uniti d’America e non dal leader di qualche piccola potenza regionale.
Prima parlava di effetti dei dazi sull’inflazione americana. Devono ancora manifestarsi?
Per ora gli importatori americani stanno riducendo i loro margini assorbendo, quindi, l’importo dei dazi. Si tratta di vedere quanto resisteranno prima di trasferirlo sui prezzi finali.
Dopo l’ultimo dato sull’inflazione americana diffuso in settimana, rischia di diventare più debole la posizione di Powell, che ancora non ha tagliato i tassi?
Il Presidente della Fed non può effettuare scelte di politica monetaria guardando al dato dell’inflazione mese per mese: deve guardare a quella attesa a sei mesi o a un anno. Il fatto che l’indice dei prezzi sia rimasto invariato a luglio non comporta l’immediata necessità di abbassare i tassi. Penso, inoltre, che Powell sappia benissimo che il costo dei dazi non si è ancora scaricato sui consumatori finali.
Guardando all’Europa, come dovrebbe affrontare l’impatto dei dazi? Tramite compensazioni per i settori più danneggiati?
Le compensazioni sarebbero una follia pura: utilizzare soldi dei contribuenti europei per aiutare le imprese danneggiate dai dazi, infatti, significherebbe far pagare ai contribuenti europei le tariffe di Trump. Intanto da inizio anno il dollaro si è svalutato del 15% rispetto all’euro, il che rappresenta un ulteriore dazio per le merci europee. Non dimentichiamoci che quando Trichet era Presidente della Bce, nel 2008, il cambio euro/dollaro arrivò a 1,60, ma di fronte a quella grande svalutazione della valuta americana nessuno, giustamente, parlò della necessità di compensazioni o sussidi.
La Bce cosa dovrebbe fare oggi?
Abbassare i tassi e anche guardare alla quotazione dell’euro. Al di là di questo, la vera risposta europea ai dazi poggia sulla seguente considerazione: quel piccolo squilibrio di bilancia commerciale degli Stati Uniti verso l’Europa, circa 150 miliardi di dollari, non è un problema di dazi o di competitività, ma di domanda interna.
Ci spieghi meglio.
Come ci ha insegnato Mandel, è la domanda interna a determinare i flussi di importazione ed esportazione e da 20 anni l’America ha un eccesso di domanda interna, mentre l’Europa ne è carente. Tra l’altro l’export extra-Ue vale il 12-13% del Pil europeo e ce ne stiamo preoccupando così tanto: dovremmo prestare invece più attenzione alla domanda interna europea, alimentarla, così, al di là dei dazi, potremmo anche riequilibrare quel piccolo disavanzo commerciale degli Stati Uniti, senza impegnarci a comprare Gnl, armi e quant’altro da loro.
Come possiamo alimentare la domanda interna europea?
È da 20 anni che l’Europa ha fame e sete di grandi progetti d’investimento per l’integrazione reale, perché è stato fatto il mercato unico, ma mancano politiche comuni in materia di energia, infrastrutture, difesa, tecnologie innovative e alta formazione scientifica. Su questi temi occorrerebbe un grande sforzo di investimenti, per i quali ci sarebbero almeno 350 miliardi di euro di risparmio europeo che ogni anno finiscono per essere investiti negli Stati Uniti.
Questi investimenti dovrebbero essere fatti dai singoli Stati membri dell’Ue?
Così facendo si andrebbe incontro a un insormontabile problema di coordinamento. Bisognerebbe invece affidare la realizzazione di questi investimenti a un piccolo bilancio federale europeo. La cosa immediata da fare sarebbe rendere strutturale il Next generation Eu, raddoppiandolo di importo, ma non assegnando le risorse agli Stati membri, bensì a un bilancio federale europeo. Inoltre, andrebbe implementata la mia antichissima proposta di scomputare gli investimenti dai parametri chiave del Patto di stabilità: infatti, se spingiamo per investimenti europei dobbiamo anche spingere per quelli nazionali.
(Lorenzo Torrisi)
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