E adesso gli occhi di tutti sono già puntati sull’Abruzzo, dove si vota fra due settimane, e dal cui voto si attendono conferme, o smentite, delle linee di tendenza emerse in Sardegna. Perché in Italia le elezioni non finiscono mai. Poi verranno Basilicata, europee (con Piemonte e oltre 3mila comuni), poi in autunno l’Umbria. E ogni consultazione, per quanto locale, finisce per mettere alla prova le formule politiche nazionali. Vale per il centrodestra, che ricandida il governatore uscente Marsilio (il primo espresso cinque anni fa da Fratelli d’Italia), ma vale ancor di più per il campo largo, che nell’isola dei nuraghi per la prima volta ha trionfato dopo ben sei tentativi andati a vuoto.
Ha vinto per un pugno di voti Alessandra Todde, più per demeriti altrui che per meriti propri. Dopo che la Meloni ha scaricato in malo modo il governatore uscente Solinas, il resto lo ha fatto l’impopolarità di Truzzu nella Cagliari che amministrava da cinque anni.
Il successo di misura ha comunque confermato che il centrodestra è battibile, a patto che le opposizioni si saldino. Sul piano strettamente matematico il dato era già chiaro, su quello politico molto meno. Basti pensare che nel settembre 2022 la coalizione di governo aveva raggiunto il 44% dei voti, e non la maggioranza assoluta. Le forze che si opponevano al centrodestra si erano presentate spaccate addirittura in tre tronconi, non potevano esserci dubbi sul risultato finale. In Sardegna invece la mini coalizione fra Pd e Avs (Alleanza Verdi e Sinistra) ha deciso di sostenere un candidato M5s, e questo è bastato per tornare competitivi.
Ecco perché il primo sconfitto delle elezioni sarde è il terzo polo. La corsa solitaria dell’ex governatore di centrosinistra Soru è stata sonoramente bocciata dagli elettori, meno del 10%, escluso dal consiglio regionale. Con Soru è stato bocciato Calenda che l’aveva sponsorizzato, e che pare avere imparato la lezione: divisi si perde.
In Abruzzo il candidato delle opposizioni è unitario, ed è espresso dal Pd, l’ex rettore dell’Università di Teramo Luciano D’Amico. Di conseguenza i candidati presidenti saranno due appena, un ritorno in pieno a un bipolarismo che sembrava archiviato. Il difficile, tanto per i centristi di Azione quanto per i grillini, sarà convivere sotto lo stesso tetto, sia tra Pescara e L’Aquila, sia nelle future sfide.
Le prime schermaglia non promettono nulla di buono: se Calenda afferma che è pronto a rimangiarsi il suo “mai con M5s”, perché nella vita si impara, Conte gli replica che “da noi si passa per convergenze su temi e programmi”. E i temi grillini sono distanti da quelli di Azione esattamente come diciotto mesi fa, quando si votò per il parlamento. Se allora furono i programmi a rendere impossibile il “campo largo”, è tutto da dimostrare che sia possibile costruirlo oggi in modo credibile. Basti pensare alla politica estera. La fallimentare esperienza dell’Unione di Prodi, con il governo ostaggio di Rifondazione Comunista fra il 2006 e il 2008, sta lì a dimostrare che facendo una coalizione da Mastella a Bertinotti la sinistra può pure vincere le elezioni, ma non è affatto detto che riesca a governare. E oggi le distanze non sono inferiori, visto che si andrebbe da Fratoianni a Calenda. Renzi chissà.
C’è poi un’altra questione da risolvere: ogni coalizione ha bisogno di un leader, persino se non si dovesse davvero andare verso una riforma costituzionale all’insegna del premierato. E qui va registrato come Conte non abbia alcuna intenzione di cedere facilmente la strada alla Schlein. In questa prospettiva le europee di giugno saranno una sorta di ordalia: guiderà il “campo largo” che fra Pd e M5s prenderà un voto in più. Sempre ammesso che sia gradito al resto della comitiva.
Questo, almeno, è quanto Conte dice ai suoi, convinto che il sorpasso sia possibile. Sparare a zero sull’ipotesi di un federatore esterno (una sorta di nuovo Prodi, forse Gentiloni) fa parte di questa strategia. Per i democratici (dove non tutti sono convinti dello sposalizio con i grillini) è un bel guaio, anche se la parola d’ordine al Nazareno è minimizzare e fare finta che il problema non sia né urgente, né rilevante, godendosi la vittoria in Sardegna. Ma quello della leadership in grado di sfidare Meloni è il nodo numero uno che l’opposizione deve sciogliere, se vuole offrire agli elettori una vera alternativa al governo del centrodestra.
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