Comincia oggi la restituzione degli ostaggi, una delle tappe più delicate dell’accordo su Gaza. Finora Trump si è imposto a Israele
Oggi Hamas dovrebbe rilasciare gli ostaggi (almeno la ventina ancora in vita; per le salme dei morti bisognerà aspettare che vengano rintracciate nei tunnel o sotto le macerie). E sempre oggi Donald Trump sarà in Israele, dove è previsto un suo discorso alla Knesset, per recarsi subito dopo in Egitto, dove saranno presenti anche leader arabi ed europei (compresa la leader italiana Giorgia Meloni), per le firme sull’accordo di pace.
Accordo che non si sa ancora bene se vedrà le sigle dei rappresentanti di Hamas, che fino a ieri dicevano di non voler partecipare alla cerimonia. Mentre altri portavoce delle milizie islamiste sostenevano che “il disarmo dell’organizzazione è fuori questione”, e che il disarmo consisterebbe, semmai, nella consegna solo di parte dell’arsenale: ad esempio, i kalashnikov resterebbero ancora nelle loro mani “a scopo difensivo”. Per non dire dell’esilio dei capi di Hamas, decisamente respinto fin dall’inizio.
Il tutto mentre gli inviati Usa (l’imprenditore Steve Witkoff, il genero di Trump Jared Kushner e sua moglie Ivanka Trump) parlavano ad una manifestazione a Hostage Square di Tel Aviv, tra le grida entusiaste dei tantissimi astanti e un gigantesco cartellone che inneggiava a Trump Nobel per la pace.
Incertezze e dubbi a parte, è innegabile il risultato raggiunto: il cessate il fuoco, la ritirata dell’IDF da almeno il 50% della Striscia, il rilascio degli ostaggi israeliani e la liberazione dalle carceri di Tel Aviv di circa duemila prigionieri palestinesi.
Il difficile, però, deve ancora essere affrontato. Perché Gaza non è diventata un parcheggio, ma resta ancora la terra di quelle centinaia di migliaia di abitanti che adesso stanno tentando di ritornare a casa, un controesodo per scoprire che quella casa non c’è più, e nemmeno tende per ripararsi, assistenza medica, generi di sussistenza, nonostante i convogli di aiuti stiano finalmente cominciando ad arrivare dal valico di Rafah riaperto.
Proprio sul controllo di quelle macerie si stanno incistando gli interessi di Hamas, che ha già mobilitato le migliaia di affiliati sopravvissuti ai bombardamenti (ai quali prevedibilmente se ne aggiungeranno altri, spinti da una rabbia vendicativa), e quelli delle brigate di Fatah, degli jihadisti, delle tante bande di clan locali, e delle milizie mercenarie sponsorizzate da Israele, le Hussam al Astal (che prendono il nome dal loro fondatore, ex dirigente di Hamas, allontanato dai servizi segreti dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen) e Abu Shabab (capitanate da Yasser Abu Shabab, leader delle Forze Popolari, un gruppo armato anti-Hamas a Gaza, un beduino della tribù dei Tarabin). Una polveriera che sembra un fertile brodo di coltura per una diffusa guerra civile.

Bisognerà verificare la capacità impositiva dell’ISF, la forza internazionale di stabilizzazione, che ad oggi non si sa su quanti e quali effettivi potrà contare, con quali mezzi e con quali poteri. Si sa solo che circa 200 militari statunitensi sarebbero già arrivati in Israele, ma con tutte le intenzioni di non muoversi oltre confine, destinati solo a controllo e comando.
A Gaza dovrebbero invece operare forze egiziane, turche, qatarine e probabilmente di qualche altro Paese, meglio se sunnita. Il coinvolgimento europeo, se ci dovesse essere, sarebbe comunque limitato, sotto l’ombrello delle ISF o dell’ONU (il grande colpevole, assente in tutto il processo di pace): l’Italia ha già dichiarato che potrebbe impegnarsi con un contingente di Carabinieri, e nelle operazioni di sminamento.
“È difficile giudicare quanto Netanyahu sia impegnato nel piano attuale – sostiene l’analista israeliano Jonathan Lis –. I funzionari governativi pensano che in nessun caso avrebbe potuto opporsi pubblicamente all’iniziativa di Trump in questo momento.
Ma nel suo discorso alla Casa Bianca, Netanyahu ha detto che Israele non esiterebbe a finire il lavoro, cioè distruggere Hamas nella Striscia di Gaza, se l’organizzazione non dovesse collaborare all’accordo. Un altro problema è che il piano è molto vago, dando a Netanyahu molto spazio per aggiungere paletti e rendere difficile per la comunità internazionale porre fine ai combattimenti o creare un governo alternativo a Gaza”.
Effettivamente, il piano lascia in sospeso diverse questioni importanti relative alla sua attuazione. “Sia per motivi politici che di sicurezza, è probabile che Netanyahu preferisca continuare la guerra a qualsiasi accordo che permetta alla leadership di Hamas di rimanere a Gaza dopo la fine della guerra”.
Intanto, questa “pace militare” sembra comunque frutto della capacità impositiva di Trump sull’alleato israeliano, dell’evidente prova di forza somministrata da Tel Aviv non solo ad Hamas, ma a tutto il Medio oriente (Gaza, Libano, Siria, Yemen, Israele, perfino Qatar), delle prospettive di business che la ricostruzione fa sognare.
Un coagulo di muscoli e interessi nel quale i secondi forse hanno giocato un ruolo fondamentale, nel miscuglio che oggi rappresenta la nuova declinazione della diplomazia, che premia i più forti e manda in soffitta il multilateralismo.
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