L’interrogativo che oggi tutti si pongono è cosa accadrà ora che la destra ha in mano il governo del Paese. E le risposte oscillano tra l’ottimismo speranzoso di chi si inscrive tra i vincitori e il catastrofismo con cui chi ha perso pensa di consolarsi.
Sul piano geopolitico e macro-economico non accadrà nulla di nuovo, o quasi nulla. Le pagine dei giornali e i dibattiti televisivi traboccano di questi “timori”, ma, per lo più, servono solo a fare dibattito. Non cambierà granché, non perché la Meloni seguirà i suggerimenti di Draghi e lo abbia eletto a suo consigliere speciale, ma semplicemente perché la Meloni è intelligente e sa che, da un lato, le regole e i vincoli rispettivamente della Ue e della Nato sono tali e tanti che non potrà muoversi molto e perché, dall’altro, né la Ue né la Nato possono permettersi di provocare un allontanamento dell’Italia dall’una e dall’altra. Entro questo range si manterrà quel che accadrà.
Più complicato è, invece, il ragionamento necessario a capire cosa accadrà sul piano della politica interna, economica e sociale. Proprio perché sul piano geopolitico e macro-economico potrà fare poco, sul piano interno la Meloni dovrà fare qualcosa e si troverà, inevitabilmente, al centro di rilevanti contraddizioni.
FdI si è guardato bene dal fare grandi promesse, ma qualcuna l’ha fatta, molte altre le hanno fatte Salvini e Berlusconi, e molte di più sono quelle implicitamente supposte dai suoi stessi elettori. Queste contraddizioni, che già ora metterebbero in difficoltà chiunque (anche Draghi), saranno esacerbate da un autunno e da un 2023 che sembrano annunciare una depressione sulla cui gravità ben pochi accettano di pronunciarsi con serietà: innalzamento dei tassi della Bce, rincari dell’energia e delle materie prime, calo della domanda interna e internazionale, inflazione, rovesci climatici, ecc. Poiché qualcosa la Meloni dovrà pur fare e poiché i margini “esterni” per agire (ricorso al debito pubblico, soccorso Ue, ecc.) non li avrà almeno nella misura necessaria, è prevedibile che tutti questi nodi prima o poi giungeranno al pettine.
Molti pronosticano che questo indurrà la Meloni a ripiegare su risultati “simbolici” (ad es., limitazioni all’esercizio dei diritti civili delle minoranze, riforma presidenzialista, ecc.). Ma anche su questo piano gli ostacoli non saranno pochi (ad es., quanto ai diritti civili dovrà guardarsi dal ricalcare troppo le orme di Orbán e la riforma presidenzialista, anche con l’appoggio di Renzi e Calenda, non potrà sottrarsi al referendum popolare).
Come che sia, appare inevitabile che le questioni economiche e sociali terranno il campo. E sembra inevitabile anche che la Meloni proverà a fronteggiarne almeno una parte secondo lo spirito e le parole d’ordine della sua campagna elettorale: proverà a sforbiciare il reddito di cittadinanza, a intervenire sul caro bollette nella misura necessaria a non aggravare troppo il debito pubblico, a liberalizzare il lavoro (a costo di abbandonarlo alla precarietà e ad un mercato di salari indecenti) e l’uso del territorio (assottigliando le tutele ambientali, ecc.), a non impedire il ritorno alla Fornero, a mantenere il peso delle imposte sui ceti a reddito fisso (lavoratori dipendenti e pensionati) ed a ridurlo per i redditi d’impresa, ecc.
Insomma, finirà per seguire la politica di “svestire un santo per vestirne un altro”. Che può sembrare l’unica praticabile in assenza di risorse aggiuntive. E che, però, non è affatto indolore, perché i santi svestiti se ne lamenteranno, specie quando si ritroveranno nudi e fuori fa freddo.
La Meloni proverà a sostenere tutto questo con la vecchia idea della crescita salvifica e soprattutto con il collante del patriottismo, e cioè con l’appello al superiore interesse nazionale. Ma entrambe queste strategie non sembra possano portare molto lontano. Da un lato, la strategia della crescita, che è stata sempre promessa ma raramente ha visto la luce, ha in ogni caso tempi lunghi e, comunque, sembra di difficile praticabilità in presenza di una recessione della domanda globale e di una flessione generale dei consumi. Che semmai porranno l’opposto problema di salvare l’esistente. Dall’altro, il consenso raccolto dalla Meloni non è fatto da elettori pronti a donare le fedi alla Patria, ma da masse deluse, deideologizzate e in protesta, che provengono da Lega e vecchio M5s, le quali soffrono sulla loro pelle povertà e ristrettezze e vedono minacciati il loro già magro tenore di vita e la loro stessa dignità e per le quali, restando nella metafora, non ci sono santi che tengano: in altri tempi si sarebbe pensato alla “nazionalizzazione delle masse”, ma in una “società liquida” come l’attuale questa strategia social-politica sembra difficile da mettere in opera.
Da questo quadro, che – come ognuno può constatare solo guardandosi attorno – è semplicemente realistico, consegue, appunto, che quello che c’è da aspettarsi è un periodo di forti tensioni sociali: come finiranno per reagire alcuni milioni di beneficiari diretti del reddito di cittadinanza e di loro congiunti e parenti di fronte alla privazione improvvisa del loro sostegno, mentre il lavoro continuerà ad apparire loro, almeno nell’immediato, una lontana chimera? Come risponderanno i molti milioni di altri cittadini sotto la soglia della cosiddetta povertà relativa che impugnano disperati le bollette dell’energia elettrica e del gas quando si accorgeranno che i sussidi aspettati saranno insufficienti e/o dureranno solo per poco e che questo, insieme ai prezzi gonfiati dall’inflazione, li porrà di fronte a scelte drammatiche tra la luce e la spesa giornaliera o il pagamento del canone d’affitto o tra il gas e la rata del mutuo? O cosa c’è da attendersi dalla miriade di artigiani e piccole imprese costretti all’alternativa tra bruciare quel che rimane dei loro risparmi e chiudere i battenti? Alle delusioni intollerabili di tutti i ceti che si sentiranno ancora una volta abbandonati si può immaginare si aggiungeranno le proteste di quelle minoranze dei “diritti civili” e dell’ambiente, e dei loro più numerosi sostenitori, che le ventilate politiche “simboliche” dovranno in qualche misura (anche piccola) sacrificare nel nome della “identità” di destra.
Tutto questo, a oggi, sembra probabile e dove porterà non è facile dirlo. Si deve sperare che l’opposizione parlamentare sia in grado di accompagnare queste proteste, sì da canalizzarle ed evitare che prendano la via dei gilets jaunes. E si deve anche sperare che il governo e la maggioranza riescano a controllare l’inquietudine che potrebbero suscitare le perdite di consenso che i consueti sondaggi faranno probabilmente registrare in questo tempo del voto fluttuante.
Se così dovessero andare le cose, molti prevedono, e si augurano, che la maggioranza di destra si sfalderà e che si giungerà ad un nuovo governo di “unità nazionale”. Il “temperamento” della Meloni indurrebbe a ritenere quest’ipotesi molto improbabile. E comunque neanche questa sarebbe una soluzione, perché i problemi resterebbero e un governo di unità nazionale non sarebbe in grado di darvi risposte molto diverse da quelle di questa destra.
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