Se non ci fosse il duo Draghi-Mattarella lo spappolamento della politica italiana sarebbe evidente a tutti. Scontri fra i partiti e nei partiti, le coalizioni nominalismo allo stato puro. Il governo va avanti, ma ne risente. Ogni suo passo diventa più pesante, man mano che si accorcia il tempo che ci separa dalla fine della legislatura. Senza l’emergenza della guerra in Ucraina probabilmente l’esecutivo dì unità nazionale sarebbe già passato in archivio.
Emergenza: è la parola chiave di questa fase politica, come di quella che l’ha preceduta. Prima il Covid, ora la guerra. E l’emergenza giustifica tutto, o quasi. La posizione più estrema che serpeggia nei palazzi appartiene a chi vorrebbe usare il conflitto in Ucraina come pretesto per rinviare sine die il rinnovo del parlamento. Non c’è scritto forse all’articolo 60 della Costituzione che la durata della legislatura si può prorogare in caso di guerra? Solo che in guerra non siamo, quantomeno non dichiarata. E nessuno immagina oggi un peggioramento della situazione. Per di più è sorprendente che nessun Paese all’infuori del nostro discuta di rinvio delle elezioni: in autunno si voterà per i rispettivi parlamenti in Svezia e Lettonia, per le presidenziali in Austria e Slovenia, giusto per restare in Europa.
All’opposto dei catastrofisti stanno i fautori delle elezioni il prima possibile. Teoria semplice: il governo è impantanato, ormai non decide più nulla, meglio anticipare la manovra economica a luglio e votare in autunno. Carlo Cottarelli sulla Stampa nei giorni scorsi si è spinto a teorizzare che non sarebbe un dramma neppure un (breve) ricorso all’esercizio provvisorio. Tanto, è la sua teoria, su vaccini e Pnrr gli obiettivi sono stati raggiunti, meglio sbloccare la situazione che rimanere ostaggio dei partiti. E chissà cosa pensa di una simile ipotesi il signore che deve firmare lo scioglimento delle Camere, il presidente Mattarella, che è lo stesso che quattro anni fa chiamò Cottarelli per un governo di emergenza che poi non fu necessario varare perché Lega e M5s trovarono finalmente l’accordo su Conte.
Certo il progressivo logoramento del quadro politico è evidente. Conte è il più agitato nel chiedere una svolta pacifista, con l’interruzione dell’invio delle armi a Kiev. Una posizione condivisa nella sostanza da Salvini, che però sulla guerra si è mosso con maggiore cautela. Contro Conte, sempre più in asse con la sinistra bersaniana, va registrato il cannoneggiamento quotidiano di Renzi, mentre Forza Italia sembra sull’orlo dell’implosione, dilaniata fra il cerchio magico capitanato da Licia Ronzulli e i tre ministri filo-draghiani e filo-Pd, Carfagna in testa seguita da Brunetta e Gelmini. Prima o poi qualcuno se ne dovrà andare, e non sarà certo la Ronzulli, che ha tuttora la benedizione del Cavaliere. Sotto l’ombrello della fedeltà alla Nato, usata come strumento di legittimazione, si sono ritrovati invece Letta e Meloni.
In casa dem non è ancora tramontata la speranza di cambiare la legge elettorale in senso proporzionale. Sarebbe la maniera migliore per evitare di dover saldare l’alleanza con i 5 Stelle, sempre più faticosa. Sinora il centrodestra ha fatto muro, ma è in corso un tentativo di convincere la Meloni che il proporzionale converrebbe anche a lei, che potrebbe fare una campagna elettorale d’attacco, libera dalla necessità di allearsi comunque con Salvini.
Per il cambio della legge elettorale il tempo è agli sgoccioli, per qualcuno è già scaduto. Eppure la chiave di volta per cambiare i termini della partita sta proprio nelle regole con cui si gioca. E solo con una legge proporzionale si potrebbe immaginare un Draghi bis, mettendo insieme dopo il voto Pd, Forza Italia, i centristi di Renzi e Calenda, oltre alle parti moderate di Lega e 5 Stelle. Di Maio e Giorgetti, per capirci.
Decisiva sarà la posizione del Quirinale, che potrebbe anche cambiare sulla base dell’evoluzione della situazione, dentro e fuori il Parlamento. Per ora però la linea è avanti tutta. La legislatura scade formalmente il 22 marzo del prossimo anno. Procrastinando lo scioglimento sino a quella data si potrebbe, in astratto, trascinare il voto sino al 29 maggio. Draghi resterebbe a Palazzo Chigi almeno fino a fine giugno 2023. Ma forse è davvero chiedere troppo a un parlamento dove 311 cambi di gruppo testimoniano uno scollamento ormai enorme fra rappresentanti e opinione pubblica.
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