Partecipando all’Ecofin della scorsa settimana, Mario Draghi, che sta predisponendo un rapporto sulla competitività europea che dovrebbe essere presentato dopo le elezioni di giugno, ha evidenziato la necessità di massicci investimenti nel continente (almeno 500 miliardi l’anno solo per la doppia transizione green e digitale), da finanziare anche tramite l’emissione di debito pubblico comune europeo. Gustavo Piga, Professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, saluta con favore le dichiarazioni dell’ex Presidente della Bce ed ex Premier italiano: «Per fortuna qualcosa si muove nella capacità di analizzare i problemi e le sfide che l’Europa ha di fronte a sé. Soprattutto, mi sembra che Draghi abbia lucidamente esposto le cause del nostro declino».
Cos’ha detto di importante da questo punto di vista?
La sua analisi parte da un dato oggettivo: il divario esistente tra Europa e Stati Uniti sotto il profilo della produttività e del Pil. Ed è esplicita nell’evidenziare che tale differenziale si va allargando da dopo il 2010 a causa di un gap di investimenti. Non ci vuole molto a individuare la causa di questa situazione, dato che nel 2012 l’Europa ha deciso di dotarsi di un contratto sociale unico al mondo riguardante la politica fiscale, che gli Stati Uniti si guarderebbero bene dall’adottare, il Fiscal compact, che ha fatto mancare il terreno sotto i piedi all’Europa levandogli quella base solidissima rappresentata dagli investimenti pubblici, che in una società giocano un ruolo quadruplo.
Perché parla di un ruolo quadruplo degli investimenti pubblici?
In primo luogo, stimolano la domanda aggregata in momenti di difficoltà, e questo è fondamentale per tenere vive le imprese evitando che chiudano per non riaprire più. In secondo luogo, hanno un enorme impatto sull’offerta aggregata migliorando la produttività delle imprese e mantenendole competitive, tramite opere infrastrutturali, oggi più digitali che fisiche. Inoltre, presentano un essenziale risvolto redistributivo, perché offrono opportunità di lavoro alle persone più fragili, molto più utili di misure assistenziali come il Reddito di cittadinanza. Infine, la politica fiscale espansiva sottesa agli investimenti pubblici, in caso di crisi, modifica positivamente le aspettative degli operatori contrastando il pessimismo. Questi quattro ruoli sono stati letteralmente demoliti da quella inusitata costruzione chiamata Fiscal compact. È evidente che bisogna cambiare marcia. Resta da capire se l’Europa sia in grado di farlo e, nel caso, come.
Cominciamo dal se: l’Europa è in grado di cambiare marcia?
Non sono molto ottimista al riguardo, perché abbiamo la prova provata, con il nuovo Patto di stabilità, che le cose stanno continuando ad andare nella direzione esattamente opposta. Non a caso la Commissione europea ha dovuto rivedere al ribasso le previsioni economiche già per quest’anno. In una società normale, la prima reazione sarebbe quella di cercare di far risalire il Pil usando la politica fiscale in modo anti-ciclico, come avviene negli Stati Uniti. Invece, in Europa la preoccupazione è quella di rispettare i parametri di finanza pubblica concordati, abbassando il deficit tramite austerità. Cosa che poi non fa altro che deprimere ulteriormente il Pil. Le ultime dichiarazioni del ministro delle Finanze tedesco Lindner – “Se vogliamo dare i soldi all’Ucraina dobbiamo ridurre spesa sociale e sussidi in patria” – mostrano plasticamente l’incapacità di comprendere che siamo in un momento in cui la politica fiscale deve diventare espansiva. Non so se Draghi riuscirà a convincere i leader europei, ma questo cambio di marcia è essenziale per vedere chiudersi i divari economici tra il nostro continente e il resto del mondo.
Nel caso questo cambio di marcia dovesse avvenire, come andrebbe realizzata la politica fiscale espansiva auspicata?
Draghi crede sia possibile arrivare rapidamente alla nascita degli Stati Uniti d’Europa e parla quindi di emissione di debito comune europeo. Personalmente ritengo che occorra muoversi con più cautela, del resto anche gli Stati Uniti d’America hanno impiegato più di un secolo per arrivare a un vero sistema federale. E temo anche che un’accelerazione nel trasferimento della politica fiscale dal livello nazionale a quello europeo possa far nascere sommovimenti di resistenza populista e nazionalista in grado di sfociare in un rigetto rischioso per la costruzione europea. Meglio, dunque, fare in modo che lo stesso ammontare di risorse per il quale si vorrebbe emettere debito europeo sia suddiviso tra i diversi Paesi membri dando a ciascuno spazio fiscale e autonomia sugli investimenti necessari. In questo modo si rafforzerebbe anche l’Europa, che verrebbe vista come un’istituzione che consente a ogni singolo Stato di tener conto delle proprie specificità e delle proprie necessità all’interno di un progetto fortemente coordinato, evitando anche che l’aumento del deficit di un Paese incida negativamente sul suo spread.
La suddivisione dell’ammontare complessivo di investimenti tra i Paesi membri dovrebbe avvenire in base al peso della loro economia, quindi al contributo che danno al Pil complessivo europeo?
Sì, non possiamo chiedere ai Paesi piccoli di risolvere il problema del cambiamento climatico o di creare infrastrutture digitali nella stessa misura in cui lo devono fare i Paesi più grandi. Ma non è altrettanto funzionale chiederlo solo a uno o più Paesi grandi. A questo punto si pone, però, il dilemma tutto italiano di non saper spendere bene le risorse. Motivo per cui continuo a sostenere che gran parte della partita europea si gioca a Roma e che è necessario avviare una seria operazione di riqualificazione della spesa pubblica nel nostro Paese.
Si parla anche della necessità di investimenti europei nella difesa e per riallineare costi e benefici della transizione green. Cosa ne pensa?
La sicurezza del continente è un importante tassello per rendere le aziende europee più sicure sulle sfide del futuro e, quindi, più capaci di impegnarsi in investimenti notevoli. Per quanto riguarda la transizione green, occorre che si tenga conto delle sue ricadute sociali e del capitale umano che rischia di essere perso. È importante, quindi, che vi siano investimenti anche a fini sociali per gestire l’eventuale disoccupazione tecnologica che dovesse insorgere da un cambiamento di modello produttivo come nel caso dell’automotive.
(Lorenzo Torrisi)
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