La Bce ha lasciato invariati i tassi. Pesa anche l'incertezza sui dazi che verranno applicati dagli Usa nei confronti dell'Ue
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ieri ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse, con quello sui depositi, maggiormente rilevante, al 2%, «la metà rispetto a due anni fa quando aveva raggiunto il picco del 4% per tornare poi a ridiscendere dal giugno dello scorso anno», ricorda Domenico Lombardi, Professore di politiche economiche e governance dell’Eurozona alla Luiss, di cui dirige il Policy Observatory.
Cosa ne pensa di questa decisione?
Per mettere nel contesto la decisione di ieri, occorre considerare che gli indicatori in mano alla Bce puntano a una sostanziale stabilizzazione del quadro inflativo con aspettative di medio periodo esattamente attorno al target, che è del 2%. La Bce ha, inoltre, valutato che la resilienza delle economie dell’Eurozona – in sostanza, il buon andamento del mercato del lavoro e l’aumento del reddito reale a seguito della disinflazione – consente di attendere qualche altro mese prima di considerare un ulteriore taglio, che rimane comunque sul tavolo.
Sempre pensando al contesto in cui è stata presa la decisione di ieri, è in corso un importante negoziato tra Usa e Ue sui dazi. Quanto la Bce ne sta tenendo conto?
In questa fase, l’incertezza è massima e lo è anche per la Bce, nel senso che preferisce aspettare, ritengo, la chiusura di un accordo tra Bruxelles e Washington per calibrare al meglio l’utilizzo del suo arsenale. In astratto, le tariffe possono muovere i prezzi in entrambe le direzioni.
Vale a dire?
Possono essere disinflative se comprimono la domanda interna o inducono una diversione dei flussi di export – per esempio, la Cina inonda i mercati europei per compensare il ridotto accesso al mercato statunitense. Possono essere inflative se, per esempio, inducono misure restrittive per l’export americano in Europa o semplicemente amplificano la frammentazione dell’economia mondiale riducendo i vantaggi della divisione del lavoro, con la conseguenza, appunto, che i prezzi aumentano perché finiscono col proteggere le aziende inefficienti.
Tirare la linea e determinare il segno del risultato netto è, ora, impossibile, come ha detto la Presidente Lagarde. Occorre attendere, pertanto, che tutti parametri dell’equazione divengano noti, o almeno, la maggior parte.
Come valuta la possibilità, paventata dal Financial Times, di un accordo Usa-Ue per tariffe al 15%?
L’esito sarebbe migliorativo rispetto al 20% minacciato nel Liberation Day del 2 aprile o il 30% annunciato più recentemente. Rimane, in ogni caso, peggiorativo rispetto al minimo sindacale del 10% che non è un livello astratto. Il Regno Unito è riuscito a convergere su quel valore tariffario, lo poteva fare anche l’Ue.
Perché allora non lo ha fatto?
Ci sono almeno tre ragioni. Una, di natura politica, sta nel fatto che alcuni grandi Paesi europei, per esempio, la Francia e la Spagna hanno grossi problemi di politica interna e faticano a contenere l’avanzata di partiti di destra al loro interno. Tutto sommato, una situazione internazionale di relativo caos attribuibile a un’Amministrazione, genericamente etichettabile di destra come quella americana, li sostiene nella loro narrazione interna che le destre sono “inaffidabili” al governo. Non è un a caso che proprio questi paesi sono a capo, nell’Ue, dello schieramento degli “irriducibili”.
Anche la Germania?
La Germania è un caso intermedio, in parte perché alcuni suoi giganti del metalmeccanico, come Bmw e Mercedes, hanno impianti negli Stati Uniti e sono, in parte, al riparo dalle conseguenze delle misure restrittive di cui si parla.
Quali sono le altre ragioni per cui l’Ue non si è mossa come il Regno Unito?
La seconda ragione è che la quota di export verso gli Stati Uniti varia nelle grosse economie dell’Eurozona: è più alta in Italia, che sostiene un atteggiamento più costruttivo verso gli Stati Uniti, più bassa in Francia che, appunto, è “irriducibile” e intermedia in Germania. Pertanto, il costo dei dazi morde diversamente in ciascuno di questi Paesi che non sono, quindi, allineati rispetto alle conseguenze che ne deriverebbero. Infine, vi è un terzo fattore che spiega perché Bruxelles non è riuscita proattivamente a strappare un accordo migliore.
Di cosa si tratta?
In ogni trattativa, occorre sacrificare qualcosa per ottenere qualcos’altro. Nel contesto in parola, significare accettare un trattamento meno favorevole in alcuni settori perché ne beneficino altri; oppure ancora accettare una penetrazione di prodotti e servizi americani in certi settori per proteggere la capacità di esportazione di altri. Ma queste sono decisioni eminentemente politiche che la Commissione non è in grado di fare. E, infatti, non le ha fatte.
Da inizio anno il dollaro si è svalutato rispetto alle principali valute globali, euro compreso. Questo ha avuto o potrebbe avere effetti sulle scelte della Bce?
Il tasso di cambio col dollaro rileva solo indirettamente per la Bce rispetto all’impatto che genera sulla dinamica dei prezzi interni. In un contesto più ampio, invece, occorre considerare che il dollaro debole implica, di fatto, che esista già un livello tariffario di circa il 15% sull’export europeo rispetto ai prezzi denominati in dollari. Se la debolezza dovesse persistere e un accordo tariffario con Washington chiudersi al 15%, allora il livello combinato salirebbe al 30%, proibitivo per qualsiasi azienda europea.
Quale decisioni si aspetta dalla riunione del Fomc della Fed in programma la prossima settimana?
La Fed dovrebbe mantenere i tassi di intervento inalterati e rinviare a settembre, o in autunno, il riavvio del ciclo di riduzione. Nelle settimane recenti, il Presidente Powell ha segnalato che l’impatto delle tariffe potrebbe essere meno inflazionistico di quanto inizialmente paventato, aprendo così la possibilità a ulteriori tagli dei tassi. Saranno, tuttavia, riduzioni misurate e graduali, dal momento che gli attuali livelli dei tassi di intervento non sono lontani da quelli che la Fed stima essere neutrali nel medio-lungo periodo.
Il buon andamento dei conti pubblici italiani è stato “certificato” recentemente anche dal Fmi. Pensa che questo possa lasciare spazio a qualche piccola politica fiscale espansiva o la priorità alla spesa per la difesa avrà il sopravvento?
La prudenza fiscale non è mai un obiettivo che si raggiunge una volta per tutte, ma ha bisogno di essere alimentato costantemente nel tempo. Il Governo Meloni e il Ministro Giorgetti hanno saputo impostare una politica fiscale credibile che oggi sta pagando i suoi dividendi, sia rispetto al nostro passato, sia rispetto, oggi, ad altri Paesi europei. Ma proprio per questo occorre essere prudenti anche nel futuro.
Maggiori margini di intervento potranno inevitabilmente venire dall’efficientamento e dalla razionalizzazione della spesa, che ovviamente non vuol dire tagli indiscriminati, dall’aumento della compliance fiscale e, naturalmente, dalla crescita.
(Lorenzo Torrisi)
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