SCENARIO UE/ “Le scelte green anticrisi mettono a repentaglio l’industria”

- Paolo Annoni

L'industria europea è sempre più in difficoltà. E le politiche allo studio dell'Ue rischiano di non invertire questo pericoloso trend

parlamento europa 3 lapresse1280 640x300 La sede di Strasburgo del parlamento europeo (LaPresse)

L’aneddotica sulla crisi del modello industriale europeo questa settimana si è arricchita di nuovi episodi. Lo stato dell’economia continentale e della sua manifattura si legge nei trend di produzione industriale e di Pil, ma diventa evidente in alcuni casi emblematici. Il produttore di pneumatici Michelin martedì ha annunciato la chiusura di tre impianti in Germania in cui oggi lavorano 1.500 persone. La decisione è arrivata per “l’insufficiente competitività” delle attività tedesche per i mercati europei e di esportazione. Tutta la chimica tedesca, e quindi europea, che è la base dei sistemi industriali, sta collassando sotto il peso di prezzi del gas e dell’elettricità che sono tre volte più alti di quelli del 2019.

Il gas naturale in Europa costa cinque volte tanto che negli Stati Uniti e oggi è più conveniente comprare etilene, una delle componenti base della plastica, in Texas e poi trasportarlo via mare attraverso l’Atlantico piuttosto che produrlo nell’Ue.

Il secondo aneddoto riguarda la rivoluzione green. Il maggiore produttore tedesco di pannelli solari, Meyer Burger, ha minacciato di spostare la produzione negli Stati Uniti. In questo caso, la competizione cinese sarebbe insostenibile per le attività europee. Evidentemente, invece, il sistema americano riesce a reggere con i suoi bassi costi energetici. La transizione energetica su cui l’Europa sta puntando, soprattutto dopo le sanzioni alla Russia, non è possibile con gli attuali costi energetici. In ogni caso l’Europa rischia di dover dipendere da quanto prodotto fuori dai propri confini a migliaia di chilometri di distanza. Dal punto di vista sociale in queste condizioni non si può nemmeno sperare di sostituire posti di lavoro tradizionali con nuovi impieghi “green”.

Il terzo aneddoto è il più interessante. Alcuni dei principali Paesi europei, riporta il Financial Times, stanno facendo resistenze contro il piano europeo di tassare le navi per le loro emissioni. Il rischio, lamentano alcuni Paesi, è quello di allontanare i commerci dall’Unione. Bruxelles ha intenzione di imporre alle navi l’acquisto di diritti di emissione di CO2 prodotta nei tratti tra due porti europei e per metà del tragitto tra un porto europeo e uno internazionale. Questo approccio ricalca l’ipotesi di tassare all’importazione i beni che arrivano da fuori dei confini europei che non sono prodotti con logiche green.

Per comprendere di cosa si tratti bisogna mettersi nei panni di un Paese non europeo che esporta in Europa. Da fuori queste tasse appaiono come pure politiche protezionistiche. Nessuno ha obbligato l’Unione europea a scegliere fonti energetiche più costose e non c’è affatto unanimità su cosa sia green o meno; il dibattito sul nucleare tradizionale in Europa, tra Germania e Francia, ne è l’emblema. Basta ricordare che il miracolo economico dell’India, che accoglie a braccia aperte le imprese che non possono più produrre in Cina nel nuovo contesto geopolitico, ha tra le sue cause maggiori il flusso di petrolio e gas economici russi. Molti Paesi poi semplicemente non si possono permettere i costi della transizione.

L’Europa ha tre alternative per risolvere l’attuale crisi. La prima è quella di mettere davanti a tutto la sopravvivenza del proprio sistema industriale riducendo a ogni costo la bolletta energetica e mettendo in secondo piano guerre ideologiche. La seconda è quella di accettare la fine della propria industria e con essa una larga parte del benessere dell’Unione. La terza è quella di provare a quadrare il cerchio con politiche protezionistiche ed erigendo barriere con cui provare a difendere, se non tutti, alcuni dei settori industriali europei. È “un sogno” che decreta la fine del modello commerciale europeo, che impone ai cittadini dell’Unione costi maggiori e che rischia di scontrarsi sulle inevitabili ritorsioni che i partner “offesi” metteranno in atto.

Dato che l’Europa non ha materie prime e dato che esporta beni ad alto valore aggiunto, la tentazione di politiche protezionistiche diffuse rischia di essere peggio anche della seconda alternativa. Un continente senza materie prime che si isola dal resto del mondo non ha grandi chance di successo.

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