L'intervento di Draghi al Meeting ha sollevato un dibattito sui mali dell’Europa. La risposta e la proposta di Prodi sono sbagliate
Il Meeting 2025 di Rimini, a partire dalla lectio di Mario Draghi, ha opportunamente indotto una discussione sulle condizioni e le prospettive dell’Unione Europea. Dopo la presidente Metsola, sono intervenuti la nostra presidente del Consiglio e il suo vice Matteo Salvini. Sulle tristi vicende europee, anche il presidente Romano Prodi ha condiviso il suo pensiero in una lunga intervista a Repubblica.
Le sue valutazioni meritano attenzione. Spiegano bene perché i cosiddetti “sovranisti”, nazionalisti e populisti, avanzano ovunque e arrivano a governare sempre più Stati: hanno senso della realtà (“L’umiltà del male”, secondo la straordinaria analisi del compianto Franco Cassano).
Come la cavalcano è altro discorso. I pericoli autoritari sottolineati da Prodi esistono. Il peggioramento delle disuguaglianze e delle condizioni del lavoro pure. Tuttavia, partono dalla realtà. Il segno prevalente della cultura progressista è invece, da tempo, la sua rimozione.
Due sono i passaggi significativi nelle risposte di Prodi. Il primo riguarda l’allargamento dell’UE del 2004-2007. L’allora presidente della Commissione riconosce l’errore esiziale, oramai evidente sul terreno geopolitico oltre che per gli effetti di svalutazione del lavoro.
Ma si giustifica così: “mi avevano promesso un cambiamento delle istituzioni comunitarie”. In altri termini, è stato compiuto un atto di portata storica, dalle conseguenze di segno contraddittorio e comunque irreversibili, sulla base di “promesse”. Promesse sprovviste di qualunque fondamento culturale e storico-politico a un minimo di misurazione con la realtà, come l’anno successivo, nel 2005, le bocciature in Francia e Olanda dei referendum per l’approvazione della “Costituzione europea” avrebbero dimostrato.
Illusioni alimentate dal credo ventotenista e dall’ideologia funzionalista (“dopo la moneta arriva la politica”), praticate con particolare fervore in Italia e, oltre confine, in qualche club esoterico di intellettualità liberal-democratica.
Il secondo passaggio significativo dell’intervista dell’ex leader dell’Ulivo si riferisce al raggiungimento di soggettività politica dell’UE nel quadro globale. Dall’allargamento è passato un ventennio, ma la religione eurofederalista, in quanto religione, rimuove le smentite della cronaca, oramai anche storia. È fede.
Così, anche il presidente Prodi, in sintonia con Draghi qualche giorno fa a Rimini, di fronte all’irrilevanza degli Stati europei nel passaggio d’epoca in corso trova la scorciatoia facile spiegandola con il voto all’unanimità.
Sarebbe il meccanismo decisionale, non le fallaci scelte politiche prese sostanzialmente all’unisono dai governi degli Stati membri, l’ostacolo alla forza dell’UE. Eppure, sul commercio internazionale, non vige l’unanimità e la Commissione ha competenza piena. Anzi, nel 2023 è stato finanche introdotto l’Anti-Coertion Instrument attivabile proprio attraverso l’agognato voto a maggioranza degli Stati membri.
Eppure, sull’Ucraina, i governi dell’UE sono stati, da subito, tutti concordi a sostenere Kiev fino alla vittoria e a disconoscere ogni possibilità di negoziato con Mosca “minaccia esistenziale” (a parte qualche mercanteggiamento di Orbán).
La distanza con la realtà è siderale al punto da far prospettare, quale strada per superare il voto all’unanimità nel Consiglio dei capi di Stato e di Governo, “un grande referendum informale per chiedere alle persone: volete un’Europa in grado di decidere? Volete togliere l’unanimità che è nemica della democrazia?”.
La stessa proposta venne presentata da Walter Veltroni qualche mese fa in un editoriale sul Corriere. La visione è sempre la stessa: società civile illuminata e politici meschini, senza attributi, ma eletti, non si capisce bene perché, dalla medesima società civile illuminata.
Caro presidente Prodi, quale popolo delle 27 compagini nazionali voterebbe sì al referendum proposto? Quale popolo rinuncerebbe al diritto di veto su questioni epocali, come la guerra, per affidarsi, di volta in volta, a una maggioranza di un ambito politico e istituzionale senza una costituzione di riferimento e così disomogeneo? Che democrazia sarebbe quella dove vige il principio di maggioranza al buio di principi fondamentali e fondativi condivisi?
Per produrre beni pubblici necessari e urgenti, possibili soltanto a scala europea, sono essenziali due presupposti.
Il primo è di ordine strettamente politico: fare scelte sensate per tagliare le catene della subalternità. Ossia riconoscere la fine del mercantilismo e riaprire il dialogo con Mosca per un ordine internazionale multilaterale.
Il secondo è di rilevanza istituzionale: archiviare i sogni degli “Stati Uniti d’Europa”, prendere atto dell’insostituibile protagonismo degli Stati nazionali e percorrere la strada del concerto tra democrazie nazionali con interessi geopolitici e assetti sociali compatibili (scenario evocato, soltanto implicitamente, da Draghi a Rimini con il riferimento alle “azioni comuni” degli Stati).
È l’unica strada percorribile. Innanzitutto, nella “vecchia Europa”. Andrebbe, pertanto, attivato lo strumento delle cooperazioni rafforzate, invece di continuare con le illusioni del voto a maggioranza su snodi vitali.
È pericoloso per la democrazia ignorare un positivo dato di realtà, da cogliere nella pur angosciante fase in corso: evaporata la favola neoliberista-ordoliberista propria dei trattati europei del primato dell’economia, ritornato a furor di popoli il primato della politica, ritorna anche, proprio per ragioni di democrazia, la dimensione nazionale e lo Stato nazionale, l’unica dimensione politica democratizzata.
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