Trump vorrebbe sostituire Powell per poter abbassare i tassi a piacimento. Ma dazi e svalutazione del dollaro potrebbero essere una ricetta pericolosa (2)
Metodo-Trump contro Powell. Ieri, secondo fonti della Casa Bianca, il presidente americano era pronto a licenziare il capo della Fed, ma un conto è dirlo, altra cosa è trovare una motivazione legittima. E così l’indiscrezione è stata smentita dallo stesso Trump, che ha definito il siluramento imminente come “improbabile”, a meno che Powell “non lasci per frode”.
Il tycoon vuole un drastico abbattimento dei tassi di interesse (3 punti) nonostante i dati sull’inflazione in crescita. “Trump crede che la svalutazione del dollaro non avrà effetti sulla sua funzione di moneta di riserva e per gli scambi commerciali. Ma come abbiamo visto (qui la prima puntata, nda), è un grave errore” osserva Giuseppe Di Gaspare, già ordinario di diritto dell’economia alla LUISS di Roma. Un errore che potrebbe costare carissimo, non solo agli Stati Uniti.
Continuiamo con i fattori che destabilizzano il sistema centrato sul dollaro. Musk ha accusato Trump di fare una politica che aumenta in modo spropositato il debito pubblico statunitense. Ha ragione o ha torto?
Entrambe le cose. Ha ragione perché il debito pubblico (Dp) è un dato fortemente negativo che va tenuto sotto controllo mantenendo un rapporto di parità del suo incremento con quello del Pil e della massa monetaria (M1). In sintesi: Dp = Pil = M1. Quindi se la massa monetaria circolante e il debito pubblico crescono più del Pil, la percezione performante dell’economia statunitense può attenuarsi e ripercuotersi negativamente sul cambio e sulla stabilità del dollaro.
I precedenti cosa dicono?
Fino ad Obama questa correlazione è stata abbastanza rispettata, con vari accorgimenti e sotterfugi che ora non si possono esemplificare. Al contempo però il debito pubblico federale, tenuto sotto controllo, ha svolto un ruolo centrale per il drenaggio dollaro-centrico. Ne era ben consapevole Reagan. A chi gli faceva notare come il debito pubblico fosse rapidamente cresciuto per effetto dell’apertura agli investimenti esteri, rispondeva: “Sì, è cresciuto, è diventato adulto ed è in grado ora di badare a se stesso”.
Fuori di battuta?
La risposta è tecnicamente ineccepibile, ma solo all’interno del funzionamento del meccanismo dollaro-centrico. Se il cambio del dollaro è stabile, per effetto del surplus dei flussi di capitale in entrata, l’investimento estero nei titoli di stato Usa è affidabile e tende ad autoalimentarsi in un circolo ricorsivo.
Dove sta invece l’errore di Musk?
La sua visione liberista è ancora più rozza di quella di Trump. Dopo i primi tagli proposti dal patron di Tesla, il presidente americano non ha potuto non tenere conto del terremoto che si è prodotto nell’occupazione del settore pubblico allargato e del prosciugamento dei sussidi federali anche alla middle class impoverita, suo principale bacino elettorale.
Vuol dire che per ragioni di consenso politico il deficit pubblico elevato è un vincolo di politica interna per Trump.
Di consenso politico e di pace sociale. Così come lo è stato per Biden. I sussidi pubblici arrivano anche là dove l’easy money procacciata dalla Fed con il keynesismo finanziario e tramite il sistema bancario non può arrivare, non trovando contropartite solvibili.
Non si era mai visto un presidente Usa dare dello “stupido” al presidente della Fed e minacciarlo di abbassare i tassi. Cosa rappresenta, sotto questo profilo, lo scontro Trump-Powell?
Al di là degli aspetti brutali del new speech politico, Trump crede, facendo affidamento su qualche suo guru, che la svalutazione del dollaro non avrà effetti sulla sua funzione di moneta di riserva e per gli scambi mercantili. Come abbiamo visto, è un grave errore. Powell invece sa bene che la persistente svalutazione può allontanare dal dollaro gli investitori esteri, irritati e resi titubanti anche da una politica daziaria minatoria, pregiudicando così l’attrattiva della moneta e ingenerando un circolo vizioso pro-ciclico.
Powell finora ha fatto il presidente della Fed: aumento dei tassi per compensare la svalutazione, acquisto di titoli di stato Usa sul mercato secondario e da ultimo anche primario. Funzionerà?
Powell cerca di tamponare al meglio il ridotto afflusso di capitali esteri sperando che la tempesta si plachi, ma è conscio che tali misure palliative, se protratte, finirebbero per accentuare la crisi di fiducia nel dollaro.
Arriverà un altro giro di inflazione, dopo quella devastante del 2022 che le banche centrali hanno tardato a contenere?
L’inflazione, come noi al momento la registriamo, dipende soprattutto dall’andamento dei prezzi delle materie prime energetiche, che è fomentato da un mercato speculativo dei derivati sulle materie prime liberalizzato da Clinton e in mano a operatori transnazionali che fanno quello che vogliono. Un mercato fuori controllo, di cui noi in Italia paghiamo comparativamente le conseguenze più pesanti.
E negli Stati Uniti?
Negli Usa l’inflazione è effetto, per il momento, essenzialmente dell’eccesso di liquidità iniettata nell’economia reale, il cosiddetto helicopter money iniziato da Obama e potenziato da Biden.
Non vede in atto, tra svalutazione e dazi, una progressiva perdita di fiducia nel sistema del dollaro?
Direi che la risposta è un’altra domanda. Quale alternativa c’è al dollaro? C’è un certo sommovimento in atto che fa perno sui Brics, non tutti. Tutti però hanno una moneta debole, eccetto i Paesi del Golfo che, cautamente, non intendono sfidare gli Usa perché se la cavano bene con il petrolio e la libertà di fare e attrarre investimenti finanziari ovunque. La Cina per il momento sta a guardare.
Allora vuol dire che il dollaro come moneta di riserva serve ancora a tutti.
Sì, però sono lontani i tempi in cui il sottosegretario al tesoro Usa poteva altezzosamente dire, agli annichiliti governatori delle banche centrali europee, che “il dollaro è la nostra moneta e un vostro problema”. Non ci sono cavalieri bianchi in arrivo fuori dagli Usa.
Dove porterebbe una svalutazione fuori controllo del dollaro?
Potrebbe fungere da acceleratore di una fuga, a quel punto irreversibile e con effetti fortemente regressivi sul commercio mondiale. Trump è un giocatore d’azzardo. La Fed, come detto, fa ciò che può con la leva monetaria, ma comprare titoli di stato in dollari con emissioni monetarie in dollari alla fine non sembra una ricetta lungamente praticabile.
Quale potrebbe essere lo scenario?
Sullo scenario non mi sento di pronunciarmi, ma ritengo difficile che si riesca a pilotare una fuoriuscita coordinata dalla crisi del meccanismo dollaro-centrico e del sistema finanziario che lo sorregge.
E se crisi del dollaro fosse?
In tal caso saremmo di fronte ad un passaggio traumatico paradossale, subìto più che ricercato, verso una forzata economia green.
In che senso?
I mercati finanziari che fanno perno sul dollaro sarebbero i primi colpiti dalla perdita di fiducia nella moneta statunitense, sgonfiandosi, non si sa di quanto, da un valore – cito a memoria – attualmente circa 25 volte superiore al Pil mondiale. Nell’economia reale seguirebbe la caduta della produzione industriale per effetto della contrazione dei cambi e dei consumi interni, la riduzione dei traffici commerciali, l’aumento della disoccupazione e il crollo del Pil. Ovviamente ci sarebbe un abbattimento generalizzato delle emissioni di CO2…
Contromisure?
È difficile, e neppure auspicabile, che il “keynesismo militare” possa porvi riparo con la riconversione industriale verso la produzione bellica. In questo scenario drammatico, paradossalmente, il “vaso di coccio” dell’Unione Monetaria Europea, con un’economia abbastanza auto-centrata nella Ue con fondamentali economici meno condizionati dal debito pubblico e privato, e non così dipendente dall’export o dall’import extra-Unione, potrebbe tenere meglio il contraccolpo.
Vale anche per l’euro?
Una moneta stabile come l’euro, oggettivamente in concorrenza con il dollaro, in assenza almeno per il momento di altri competitor, potrebbe trovare maggiori opportunità di impiego. In questo contesto, l’attacco all’euro sarebbe destinato a riprendere quota, segnalando l’assenza di un mercato dei capitali unificato come ribadito con forza da Draghi. Ovviamente, in questo mutato contesto competitivo, anche sulla moneta servirebbe una cabina di regia lungimirante a Bruxelles. E a Francoforte.
Se questi sono i possibili sviluppi, non crede che diventi molto importante, oggi più di ieri, rientrare in possesso delle riserve auree? La Germania lo ha fatto in tempi lontani e fuori dai riflettori, l’Italia no.
Al rientro dell’oro in Italia non ci sono controindicazioni, ci mancherebbe. La detenzione a Fort Knox delle riserve auree dei Paesi sconfitti nel 1945 è stato uno gravame che ci è stato imposto, probabilmente con la scusa di costituire una stanza di clearing e a garanzia, all’epoca, della solvibilità del marco e della lira. In ogni modo, con la fine del Gold exchange standard (1944-1971, nda) non c’è più ragione per non rientrare in possesso del nostro oro, come già fatto dalla Germania. C’è però una complicazione, tutta italiana, che potrebbe costituire un’impasse nell’avanzare la richiesta.
Quale sarebbe?
La domanda è: a chi appartengono ora quelle riserve? Fino alla modifica dello statuto originario del 1936 della Banca d’Italia, intervenuta per effetto del decreto-legge 133 del 2013, le riserve auree erano dello Stato italiano e solo in custodia presso la Banca d’Italia. Con la modifica statutaria del 2013 e la privatizzazione societaria della Banca, tali riserve sono state invece acquisite al patrimonio.
Quindi?
L’interrogativo diventa: chi le richiede e per chi? Le si richiede indietro per darle allo Stato, oppure per la Banca d’Italia? Si tratta di un importo, per quanto leggo sui giornali, di circa 100 mld di euro. Un asset assai rilevante per il rating del debito pubblico, ma interessante, credo, anche per le banche private partecipanti al capitale di Bankitalia che vedrebbero, nel caso di loro acquisizione in caso di acquisizione dell’oro al patrimonio della Banca d’Italia, aumentare pro quota il valore delle specifiche partecipazioni.
A chi spetta sciogliere l’enigma?
Ovviamente al Governo. Certo, è meglio che l’oro sia nei sotterranei di Palazzo Koch a Roma piuttosto che a Fort Knox nel Kentucky. Ancora meglio, direi, sarebbe se laggiù fossero solo custodite, con lo Stato italiano che ne detiene la titolarità. Non si si sa mai. (2 – fine)
(Federico Ferraù)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.