I dazi di Trump hanno messo allo scoperto tutte le disfunzionalità del protezionismo UE. Il tycoon andrà avanti. Anche sulla FED

Vuoi vedere che l’Unione Europea spera nei giudici americani per alleviare gli effetti delle tariffe di Trump e, chissà, ribaltare la partita? Per quanto possa sembrare paradossale, sì. Ma è un sogno proibito di breve durata.

La realtà che a Bruxelles non si può far finta di non vedere è che il deal Trump-von der Leyen, definito dalla leader europea “il più grande accordo di sempre”, è esposto alla volubilità delle decisioni trumpiane. Che sono legittime. I problemi stanno tutti al di qua dell’Atlantico, nel DNA ordoliberale dei trattati europei e nel protezionismo distorsivo delle regole comunitarie.



Chris Foster, investitore, spiega ai lettori del Sussidiario le scelte di Trump, dai dazi alla FED. Il presidente USA in fondo si sta comportando in modo piuttosto prevedibile, e sta attuando il suo programma elettorale. Sarà l’Europa a pagarne le conseguenze, e non per colpa del tycoon e della sua tariffa del 15%. E saranno conseguenze durature.



Dal Liberation Day a oggi il mondo dell’economia e della finanza sta vivendo un periodo di grande incertezza e grande volatilità sui mercati. Lei, da investitore, come si è comportato in questa fase?

Il panico, di aprile in particolare, amplificato dai media si è rivelato in buona parte ingiustificato. Chi ha avuto il buon senso di non lasciare decidere la propria strategia a Bloomberg, FT, CNBC, eccetera, negli ultimi quattro mesi ha fatto affari straordinari. Il rally della tecnologia USA ha spinto i mercati verso i nuovi massimi. Più che supportati da una stagione di utili aziendali eccezionali in Usa, e confermati dalle trimestrali pubblicate in luglio e agosto.



Non crede che il clima da panico sia in parte giustificato dal sopraggiungere di un nuovo ordine globale del commercio che ha messo in discussione il modello capitalistico neoliberale basato sulla WTO? 

A mio parere il modello economico internazionale non è stato messo in discussione in modo così radicale come i commentatori più ingenui o politicizzati hanno osservato. Trump non mette in discussione le basi del commercio internazionale, né i principi di base del capitalismo. I processi decisionali confusi, lo stile comunicativo e il modello negoziale con i leaders internazionali hanno generato analisi molto superficiali e fomentato timori piuttosto infondati. Se il focus è sullo stile, sì, certo, siamo di fronte a una rivoluzione e non tutto è per il meglio.

E l’imprevedibilità?

Ovviamente i politici e i mercati non amano variabili impazzite. C’è stato questo aspetto di annunci inattesi e di sparate poi ritrattate, ma in fondo…

In fondo si può accettare tutto?

No, intendo dire che in fondo Trump è stato piuttosto prevedibile: sta attuando il suo programma elettorale come normalmente nessun politico fa. Dai dazi alla politica industriale, all’immigrazione, alla progressiva pulizia delle istituzioni dalla follia woke dell’amministrazione precedente, a ben vedere non c’è imprevedibilità di programma e priorità.

E il caos all’interno dell’amministrazione?

Una certa confusione di ruoli ha reso difficile identificare le linee strategiche. Un esempio per tutti, la logica sottostante all’imposizione di determinate aliquote tariffarie verso alcuni Paesi rispetto ad altri. Su questo e altri aspetti organizzativi il team presidenziale non ha fatto un buon lavoro. O semplicemente non sono stati in grado di gestire l’ego di Trump.

Sembra evidente che Trump sta usando i dazi anche per perseguire finalità politiche, non solo economiche, come nei casi del Brasile e dell’India. Anche questo è accettabile?

Certamente sì per una superpotenza. Le precedenti amministrazioni sia dem che repubblicane hanno perseguito obiettivi geopolitici e strategici con guerre e operazioni di polizia internazionale, finanziando rivoluzioni e colpi di Stato. Basti pensare a Ucraina, Libia o Siria, senza dover andare al secolo scorso. Forse è meglio perdere qualche punto percentuale in efficienza economica e commerciale globale ed evitare milioni di morti in proxy wars e non solo. Anche se costasse un punto di GDP globale. Quindi ben venga la confrontation aggressiva verso Lula. Nulla di nuovo dal punto di vista dell’imperialismo americano.

Lei opera sui mercati globali da più di trent’anni. Come mai non segue in modo più dogmatico i dettami del “libero mercato”, la scuola di Milton Friedman, le politiche conservatrici e liberiste di Reagan e Thatcher?

Siamo in una fase di grande incertezza per il cosiddetto libero mercato, chiamiamolo pure “mercato globale”. Però il libero mercato non può essere solo basato sul libero scambio senza dazi. L’assenza di barriere doganali – ovvero l’esistenza di Free Trade Areas, con le varie declinazioni geografiche che conosciamo – non equivale a libero mercato. Questo lo sanno bene i leaders europei, che usano varie forme di protezionismo interno, con un mercato interno ancora molto incompleto a quasi 70 anni dal trattato di Roma, e politiche di sussidi e regolamenti che rendono il mercato europeo difficilissimo da penetrare per esportatori stranieri.

Ci faccia un esempio. Prendiamo l’agricoltura: si levano voci preoccupate, come si vede dai produttori di vini e formaggi di Italia e Francia.

È presto detto. La Common Agricultural Policy (CAP) europea prevede una combinazione di dazi, restrizioni, regolamenti rigidi, spesso giustificati per la tutela del consumatore, nonché sussidi che rendono il mercato europeo quasi impenetrabile all’import agricolo. Chi si indigna per la perdita dell’efficienza del libero scambio e della specializzazione produttiva a causa dei dazi americani dovrebbe appunto spiegare che senso ha avere allevamenti intensivi in un continente sovrappopolato, in parte inquinato come l’Europa, invece che importare carne dall’Argentina a un terzo del prezzo europeo. La teoria della specializzazione produttiva suggerirebbe anche che molti beni agricoli potrebbero essere importati e l’UE potrebbe focalizzarsi su produzioni ad alto valore aggiunto o con forte caratterizzazione locale.

Lei supporta questa tesi?

Non del tutto, a causa dei rischi che comporta in termini di sicurezza e indipendenza nazionale. Ma chi vuole fare il dogmatico sui danni dei dazi dovrebbe anche riflettere sulle attuali distorsioni produttive europee e le loro conseguenze sul livello dei prezzi per il consumatore.

Un altro esempio?

Friedrich Merz (Ansa)

La leadership europea a trazione tedesca, dagli anni 90 al decennio scorso, si è focalizzata sull’interesse economico e geopolitico del blocco industriale Germania-Olanda, con la Francia che si è occupata più di politica estera e protezionismo agricolo e finanziario: la politica europea era orientata all’approvvigionamento energetico tedesco, alla protezione degli interessi industriali tedeschi radicati nell’industria automobilistica e nel suo indotto, più nel supporto a colossi chimici come Bayer e BASF e a un grande esportatore di equipment come Siemens.

Vada avanti.

Politici, lobbisti ed euroburocrati si sono “dimenticati” di regolamentare e proteggere aggressivamente un solo settore, quello legato a internet: social mediasearch enginesbrowsers, financial data providersoperating systems, e-commerce platformsonline advertisingcloud services e altro. Questo settore è stato invaso e dominato dai giganti del tech USA, che si sono facilmente adattati alle direttive di data protection europee. È la migliore dimostrazione logica, per assurdo, di cosa vuol dire protezionismo stile UE: l’unico settore difficile da proteggere, sorvegliare e ricattare, è stato completamente sottovalutato dalla… geniale leadership euro-tedesca: è diventato in pochi anni un monopolio americano inattaccabile.

Inattaccabile proprio da tutte le società europee? Eravamo davvero così indietro rispetto alla Silicon Valley?

Argomento da libri di storia! Mentre la gran parte del bilancio UE sussidiava prodotti come il mediocre latte olandese e le società di ricambi auto dell’Est Europa legate ai colossi tedeschi, in USA nascevano Amazon, Google e Nvidia. E mentre Nokia, Ericsson, Siemens, Alcatel erano tra le società più grandi del continente e celebravano la superiorità del modello europeo, Apple stava per annientare un intero settore in soli 2 anni. Insomma, le istituzioni europee non hanno contribuito a quella indipendenza tecnologica che avrebbe fatto molto comodo ai politici europei in questi mesi.

Alternative per l’Europa, oggi?

Zero. Non c’è nessuna alternativa, al momento, ai cloud services di Amazon, Microsoft, Google, Apple, Oracle, Salesforce.

Questo significa che senza un protezionismo aggressivo…

Secondo semplici basi di logica e teoria economica, senza il suo protezionismo, l’UE avrebbe solo una piccola frazione di quello che vediamo oggi nei settori dell’auto, della chimica, della produzione agricola e carne. Le risparmio una più lunga disquisizione sul protezionismo finanziario europeo, attuato in modo attivo, aggressivo e con danni enormi, visibili da tutti.

In due parole?

Proteggere le inefficienti banche domestiche sembra essere una priorità assoluta per i governi francese e tedesco in particolare, per esempio, sapendo di danneggiare il mercato interno UE.

Torniamo al metodo Trump. È davvero accettabile che una nazione come gli USA, il membro più importante della WTO, si comporti in modo aggressivo, senza una chiara strategia, decidendo in modo unilaterale e del tutto arbitrario i livelli dei dazi con le controparti commerciali?

Anche qui mi permetto di uscire dal coro. Gli USA sono il più grande consumatore globale da quasi cento anni. Il più grande “cliente del mondo” che impone dei dazi per ribilanciare il proprio trade deficit – e quindi il proprio current account deficit profondamente in rosso – ha una forza negoziale basata sui flussi commerciali e può farla valere in tanti modi, assolutamente discrezionali nell’impostazione. Fa ridere chi critica le scelte di Trump in materia come “unilaterali”. Come si applicano i dazi, altrimenti? Ancora più ridicolo è chi minaccia ritorsioni verso il proprio “cliente” principale.

Insomma, vuoi avere accesso al consumatore più grande del mondo per vendere i tuoi prodotti? Lo paghi.

Esatto: paghi l’accesso. Proprio come lo impongono tutti i grandi Paesi occidentali e orientali su una grande varietà di beni e servizi, in modo fiscale o regolamentare. Questo farà molto male all’Europa e i danni veri si conteranno negli anni a venire. Non sono in grado di fare stime.

I più importanti economisti e i media leaders nel campo finanziario si aspettano ancora un impatto notevole e duraturo sull’inflazione americana. Non è un controsenso che Trump, eletto anche grazie al calo di popolarità di Biden-Harris legato all’inflazione domestica, metta in atto politiche altamente inflattive?

L’impatto sarà decisamente minore dei numeri a doppia cifra paventati dai soliti noti. È vero che una parte dei dazi verrà subita dai consumatori americani sotto forma di inflazione, ma sarà la parte più piccola.

Trump vs. Powell. Ha senso minacciare il presidente della FED perché non taglia i tassi di interesse, anche a costo di avere un’inflazione al rialzo? Danneggiare così l’indipendenza della FED non può che danneggiare la credibilità degli USA, del loro debito pubblico e del controllo dell’inflazione nel lungo periodo. Sembra una ricetta disastrosa. 

Ovviamente la sceneggiata continua contro Powell non merita giustificazioni. Ma ancora una volta non posso nascondere il mio sconcerto di fronte alla levata di scudi a protezione della cosiddetta “indipendenza” della FED, un concetto quasi sacrale. Primo: la FED è un’organizzazione profondamente politica e politicizzata, e da una trentina d’anni, nei fatti, sbilanciata verso il Partito democratico USA. Secondo: la cosiddetta FED indipendente ha un curriculum assolutamente disastroso dal punto di vista della vigilanza bancaria.

Sia può esplicito…

Si pensi alle crisi bancarie degli ultimi vent’anni, originate da debolissimi principi di risk management e accounting di molte banche, non adeguatamente identificati in tempo, anche se evidenti a molti osservatori. E cosa dire delle scelte di vigilanza e politica monetaria che negli anni duemila hanno messo le basi per la più grande crisi finanziaria dalla Grande Depressione?

Chi va ringraziato?

All’origine di gran parte degli squilibri del sistema finanziario americano di oggi c’è Alan Greenspan, considerato un “mostro” intoccabile. Non vorrei dimenticare il track record a dire poco disastroso delle previsioni economiche della FED, che si sono rilevate clamorosamente e continuamente errate attraverso i vari cicli economici, con il gran finale di Powell che ha contribuito in complicità con Biden a devastare in soli quattro anni il potere d’acquisto di una generazione, nonché a mettere delle basi pericolosissime per un’altra serie di bolle finanziarie, che spaziano su quasi tutte le asset classes.

Cosa pensa delle scelte della BCE, visto che siamo in argomento?

Forse perfino la BCE ha fatto “meglio” della FED in questi ultimi 25 anni. E non ci sono dubbi che la BCE si può definire più “indipendente” della FED, almeno per il fatto che gli obiettivi dei suoi board members di varie nazionalità e estrazioni sono spesso conflittuali e inconciliabili tra loro: come suggerisce la teoria dei giochi, è impossibile trovare un vero accordo completamente trasversale sui temi chiave. Da qui la maggiore “indipendenza”, come conseguenza dell’impossibilità di allineare gli interessi di tutti in una direzione.

E quindi?

Quindi, se da un lato la telenovela Trump-Powell non è un punto a favore per il presidente USA, almeno qualche economista o commentatore dovrebbe far notare che Powell ha fallito su tutti i fronti come FED chairman. Nemmeno la Yellen era riuscita a fare tanto.

Nessun dubbio, dunque. Ha ragione Trump.

In un’istituzione privata, Powell sarebbe stato licenziato in tronco insieme al suo team. Se i valori assoluti e supremi della cosiddetta indipendenza della FED generano tali disfunzioni, errori e scelte politicizzate, dalla vigilanza bancaria alla politica monetaria, allora lo spazio per un peggioramento ulteriore è relativamente limitato.

Riuscirebbe in poche parole a delineare uno scenario di lungo periodo per i rapporti commerciali globali a seguito dell’introduzione dei dazi trumpiani?

Le previsioni catastrofiste dei soliti media mainstream hanno dimostrato, come in passato, che c’è sempre un punto di incontro tra la retta dell’incompetenza e quella della malafede o dell’odio ideologico. Se il sistema del commercio globale è stato davvero danneggiato in modo permanente, con attesi crolli di produttività, di efficienza, inflazione a doppia cifra per i consumatori, crollo dei profitti, escalations e retaliation tra Paesi… bene, allora ci troveremmo di fronte a un nuovo modello economico globale con gravissimi impatti sulla crescita, sui margini aziendali e quindi anche sulle valutazioni di molti assets finanziari. Tradotto, aspettiamoci mercati azionari 30-40% sotto i livelli attuali.

E lei non la pensa così, suppongo.

No. A mio parere il sistema capitalistico globale ha ancora la capacità e gli strumenti per adattarsi ad alcune restrizioni e inefficienze legate ai crescenti costi del commercio con gli USA. Non so in quanti si rendano conto di come l’AI e i progressi nell’automazione industriale e logistica ridurranno i costi aziendali e impatteranno sulle dinamiche del mercato del lavoro e dei prezzi.

Appunto, in che misura avverrà?

Cambiamento di flussi commerciali, calo del tasso di crescita economica in combinazione con una crescente politica di taglio di costi e automazione legata ad applicazioni AI mitigheranno l’impatto inflattivo di questa disruption. Ovviamente i colossi tech USA stanno già riducendo i costi del lavoro con tagli massicci del personale rimpiazzato da automazione AI-driven, con effetti significativi in termini di earnings growth e margini operativi. Questo mentre in Europa si parla per lo più di AI per utilizzo su droni da guerra. Quindi è inutile sognare che la nuova Microsoft nasca a Berlino.

Per chiudere: cosa sarebbe dei dazi se i democratici vincessero le prossime presidenziali?

Verranno mantenuti. È ora di inserire nell’analisi economica questa nuova realtà di un’America che, anche dopo Trump, punterà a cambiare una parte del proprio DNA cercando di recuperare la propria capacità industriale e ridurre la propria dipendenza dalla tecnologia asiatica. Il trade deficit è destinato a ridursi come conseguenza di questo, pur essendo destinato a rimanere in rosso nel lungo periodo. Con o senza dazi.

(Federico Ferraù)

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