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Home » Scienze » CERVELLO/ Quali vantaggi porterà la “macchina per leggere il pensiero”? Al di là di certi trionfalismi mediatici…

  • Scienze

CERVELLO/ Quali vantaggi porterà la “macchina per leggere il pensiero”? Al di là di certi trionfalismi mediatici…

Niente paura, nessuno verrà a sbirciarci in testa. È quanto assicura il professor GIANFRANCO BASTI, fisico, teologo e docente di Filosofia della Scienza, presso la Pontificia Università Lateranense, in merito agli entusiasmi pseudoscientifici con cui gran parte dei media hanno salutato un apparecchio in grado di ridare la voce a un disabile monitorandone le reazioni cerebrali

Int. Gianfranco Basti
Pubblicato 6 Dicembre 2008
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È bastato il suono di una “a”, emesso dalla metallica voce di un sintetizzatore, perché si gridasse al miracolo. La notizia, sicuramente eccezionale da un punto di vista scientifico e medico, riguarda un cittadino americano affetto da una paralisi cerebrale che gli impedisce di parlare. Con un elettrodo impiantato nel cranio è riuscito a farsi leggere il pensiero, almeno così dicono, e a tradurlo in suoni. Ma mentre la felicità del paziente e dei ricercatori è comprensibile lo è molto di meno la corsa sfrenata al sensazionalismo di gran parte dei media. Stando a quanto affermano numerosi quotidiani sembra che il mistero della mente stia per risolversi e che le porte dei più reconditi meandri del pensiero umano stiano per spalancarsi alla luce della tecnica. Addirittura si sono sprecati filosofi a scrivere articoli di spalla alla notizia tirando in ballo sintagmi altisonanti come “svelare l’io”. Ma le cose stanno davvero così? A quanto pare no. Non si tratta di cinismo e indifferenza nei confronti delle “magnifiche sorti e progressive”, ma di un sano realismo, come spiega il professo Gianfranco Basti, fisico, teologo e docente di Filosofia della Scienza presso la Pontificia Università Lateranense.


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Professor Basti, ha fatto notizia un esperimento definito come di “lettura del pensiero”. Che cosa riusciamo davvero a visualizzare dell’attività del nostro cervello?

L’attività di determinati circuiti neurali. Ciò che però è interessante dal punto di vista cognitivo è l’informazione che viene trasmessa attraverso quei circuiti. Proprio perché non c’è corrispondenza univoca, 1:1, tra il circuito neurale e l’informazione processata. Quello che fa stupire è che noi non riusciamo a risalire a quale tipo di pensiero effettivamente la persona stia facendo nel momento in cui viene monitorata, al massimo possiamo sapere a che cosa si sta “interessando”, perché la nostra conoscenza della massa cerebrale va per aree e non è così specifica come la si vuol dipingere.


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Potrebbe farci un esempio di quanto ha affermato?

È come se io volessi, mettendo un tester sui transistor di un computer, capire quale equazione la macchina stia risolvendo: non posso saperlo. In generale posso ipotizzare quale tipo di pensiero è al centro dell’attenzione del soggetto, ma non possiamo certo entrare nella complessità della mente. Essa infatti è incorporata non nel flusso energetico, che si può ben misurare con queste rilevazioni, ma nel flusso informazionale che sta all’interno di questi scambi energetici. Davvero non c’è corrispondenza fra questi due elementi.


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Ma il fatto che la macchina abbia elaborato delle lettere sulla base dell’attività cerebrale del paziente, può essere considerata una svolta nella conoscenza specifica delle funzioni cerebrali?

Non proprio, ogni cervello è diverso da un altro. Come sono connessi i neuroni nel cervello di ciascuno dipende intrinsecamente dall’esperienza che ogni individuo ha fatto innanzitutto nei primi anni di vita e poi nel corso della propria esistenza.

Il meccanismo è molto più semplice di quanto l’ondata mediatica faccia pensare. Esattamente come noi disponiamo di Personal Computer che riconoscono la voce, e che si possono “addestrare” a svolgere questa funzione, allo stesso modo, a forza di monitorare le parti del cervello attive nelle aree linguistiche e a connetterle a un dispositivo che le “registra” è possibile, in maniera assai rudimentale, riprodurre dei corrispondenti suoni o immagini di lettere. È un meccanismo azione-reazione, nulla di più.

Quindi non si tratta di “segni”, ma soltanto di “segnali”, se così si può dire

Che dipendono semplicemente dall’individualità del soggetto. Ecco il punto: l’informazione è un fenomeno olistico e non legato al singolo neurone, quindi lo stesso neurone in momenti diversi può esser coinvolto in circuiti di calcolo diversissimi.

Si parla di interfaccia cervello-computer, per esempio per utilizzare segnali del cervello e comandare certe attività fisiologiche.

Questa è la cosa più interessante, il fattore che potrebbe rivelarsi utile nell’aiutare persone disabili. Elaborando la mappatura del cervello di queste persone potremmo per esempio interpretare i segnali che andrebbero all’area motoria, intercettarli e quindi renderli azione di stimolo, il che risulterebbe utile per creare gambe, occhi e altre membra artificiali che reagiscano a questi bioimpulsi. Si potrebbero costruire “pezzi” di ricambio, anziché con materiale biologico, con materiale artificiale.

Esistono già protesi di questo tipo?

Sì. Ma sono per lo più oggetti che si realizzano a livello di ricerca anche se qualche caso sperimentale su pazienti menomati comincia a dare effetti molto positivi.

Il macchinario che le ho citato all’inizio sta aiutando un paziente che non riesce a parlare. Ci sono autentiche prospettive da questo punto di vista per il linguaggio?

Certo, ma sempre nell’ottica che spiegavo prima. Le aree del cervello interessano milioni e milioni di neuroni. L’informazione, il pensiero non sta nel cervello, ma nell’interazione fra cervello, resto del corpo e mondo circostante. Come diceva San Tommaso: «anima est quodammodo omnia», non è la mente ad essere contenuta nel corpo o nella testa, ma è la testa e il corpo che sono contenuti nella mente.

Non è difficile da capire, basta non avere una concezione vetero cartesiana del nostro corpo e della nostra mente.

Non crede che ci sia una sorta di riduzionismo nel cercare di descrivere l’uomo come una sorta di congegno scomponibile e in tutto e per tutto analizzabile?

Il riduzionismo è un “ismo”, è un’ideologia. E neanche la fisica è esente dall’ideologia. L’ideologia riduzionista ci ha abituati a pensare che la fisica abbia a che fare con la sola materia, ma non è affatto così. Già per comprendere che l’energia è materia ci sono voluti dei secoli, ora il passo è quello di capire che la fisica attuale lavora già con grandezze immateriali. Noi parliamo di realtà virtuale, valore immateriale della conoscenza, e tutto questo è corretto perché l’informazione è legata alla materia, ma non è materia. Ma quando affermiamo che l’anima è “informazione” ci ostiniamo a esprimerla sotto forma di materia. La fisica oltre che con la materia ha a che fare con la forma, per dirla in termini aristotelici. Ecco perché parlo di “informazione immateriale”. Questo è un concetto che il mio stimato amico Piergiorgio Odifreddi non riesce a capire. O meglio, non vuole accettare. Eppure è un grande matematico e, paradossalmente, insegna proprio logica formale.

A seguito di questa notizia un famoso filosofo della scienza ha auspicato la possibilità che la tecnica sia in grado un giorno di “svelare l’io”. Non le sembra una pretesa quasi prometeica?

È una pretesa giusta, ma sbaglia a definire l’io come l’oggetto della ricerca.

A me piace distinguere fra l’ “io” e il “me”. L’autoreferenzialità di una persona certifica della sua coscienza: questa è possibile proprio perché non è completa. Esattamente come avviene in matematica l’autoreferenzialità dev’essere parziale, sennò il sistema va in loop, diventa instabile. Così il fatto che l’ “io” non è il “me” garantisce la possibilità dell’autocoscienza. Faccio un esempio: c’è un film intitolato Next dove il protagonista conosce il proprio futuro e, proprio per questo fatto, riesce a cambiarlo. È un paradigma della differenza fra l’ “io” e il “me”. Quello che posso controllare è il “me”, ma per definizione non posso controllare l’ “io” perché è la sorgente stessa del “me”.

Paradossalmente aumenta la contraddittorietà: più controllo il “me” più esalto il mio io. E quindi tutto ciò che con la tecnica potremo fare sarà controllare sempre di più il “me” se vorremo aiutare sempre più la libertà delle persone.


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