La quantità di acqua presente nei terreni dei vari continenti e la salinità degli oceani sembrerebbero fenomeni senza particolari collegamenti e il loro studio congiunto, a prima vista, parrebbe poco interessante. Ma non è così: si tratta infatti di due parametri chiave connessi al ciclo dell’acqua e importanti per gli studi meteorologici e climatici. Le variazioni di umidità dei suoli e della salinità della acque superficiali oceaniche sono una conseguenza del continuo scambio di acqua tra i mari, l’atmosfera e le terre emerse. Una fotografia adeguata di questa situazione però non esiste negli archivi dei centri di ricerca: almeno finora. Da oggi questa lacuna sarà colmata grazie alla missione avviata questa notte col lancio del satellite SMOS dal cosmodromo russo di Plesetsk, 800 km a nord di Mosca.
Il nuovo satellite scientifico si inserisce nel progetto dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) per l’osservazione della Terra e denominato Living Planet Programme, che ha già visto lanciato con successo nel marzo scorso il Goce, che ora sta misurando con estrema precisione il campo gravitazionale terrestre.
Il principale compito di SMOS, come spiega la sigla con cui è stato battezzato, è il monitoraggio dell’umidità dei suoli (Soil Moisture) e della salinità degli oceani (Ocean Salinity); ma i dati che fornirà permetteranno anche di migliorare la conoscenza del ciclo dell’acqua sulla Terra, dando un importante contributo alla capacità di prevedere con maggior precisione sia eventi climatici ordinari che straordinari. Il satellite trasmetterà a Terra ogni tre giorni una mappa globale dell’umidità dei terreni con una accuratezza del 4% e con una risoluzione spaziale di 50 km, il che equivale a rilevare la presenza di un cucchiaino di acqua mescolato in un pugno di terra. Fornirà poi una mappa globale della salinità media mensile della superficie marina fino a 0,1 unità pratiche di salinità misurate su un’area di 200×200 km, è ciò è paragonabile alla individuazione di un decimo di grammo di sale in un litro d’acqua.
La missione SMOS è il risultato di un progetto congiunto cui, oltre all’Esa, hanno partecipato l’Agenzia Spaziale francese (Cnes) e il Centro spagnolo per lo sviluppo delle tecnologie industriali (Cdti). Ma non mancano i contributi italiani: il Dipartimento di informatica dell’Università Tor Vergata (Roma) ha predisposto il modello di emissività delle foreste tropicali che fa parte dell’algoritmo per le misure di umidità; mentre l’Istituto di Fisica Applicata “Nello Carrara” Cnr-Ifac contribuisce alla calibrazione del radiometro MIRAS, lo strumento principale a bordo di SMOS.
Di questa attività ci parla Giovanni Macelloni, che opera all’Ifac di Firenze, sottolineando come la calibrazione dei dati acquisiti durante una missione spaziale e la loro validazione, sia uno dei punti chiave per la generazione di prodotti applicativi di qualità generati dalla missione stessa. «Tale qualità va inoltre garantita nel tempo e per questo debbono essere messe in campo strategie opportune per compensare eventuali degradazioni nelle prestazioni dello strumento dovute all’invecchiamento. Aldilà dei metodi di calibrazione interna allo strumento (che utilizzano cioè dei sistemi di riferimento per le misure che si trovano a bordo del satellite) un’opzione molto utilizzata è quella di osservare bersagli estesi e con caratteristiche fisiche ben conosciute. Fra tutti i bersagli utilizzabili sulla superficie terrestre la calotta polare Antartica e in particolare l’area vicino alla base Italo-Francese di Concordia, situata nella parte orientale, è senz’altro una delle aree più promettenti».
Il motivo fondamentale, spiega Macelloni, è dato dal fatto che alla frequenza utilizzata da SMOS (1,4 GHz, equivalente a 20 cm di lunghezza d’onda) il segnale misurato proviene essenzialmente da zone profonde della calotta (circa 100 metri) dove le sue proprietà fisiche rimangono stabili nel tempo. Inoltre tale zona è particolarmente indicata perché:
è situata in prossimità del Polo e per questo viene osservata con una grande frequenza (5-6 volte al giorno) dai satelliti di osservazione della Terra che operano in orbita polare;
L’area è omogenea spazialmente (a scala cioè dei 100×100 km) rispetto all’area osservata da SMOS;
La rugosità superficiale e la pendenza media del terreno (che sono parametri in grado di modificare il segnale misurato dal satellite) sono molto modeste;
L’atmosfera è molto stabile e molto secca (anche questa può modificare il segnale misurato);
Vi sono numerosi dati ausiliari disponibili a causa delle varie attività scientifiche che sono state effettuate nella base (stratigrafia della calotta, dati atmosferici).
«Tale presunta stabilità temporale della misura andava però confermata con misure a terra (su queste zone non erano mai state effettuate misure dirette) prima del lancio della missione. A partire dal 2005 è iniziata così un’attività sperimentale, condotta da Ifac-Cnr supportata da Esa e dal Pnra (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide), che ha comportato l’esecuzione di alcune campagne sperimentali in Antartide nella base di Concordia con il radiometro a microonde Radomex . Il radiometro, progettato e sviluppato presso Ifac con le stesse caratteristiche del radiometro SMOS, è stato utilizzato per una campagna pilota nel 2005 ed è stato installato nel dicembre 2008 su di una torre di osservazione a base Concordia per un monitoraggio continuo dell’area. I risultati ottenuti hanno confermato una sostanziale stabilità del segnale e forniranno cosi utili informazioni durante la fase iniziale della missione per valutare le prestazioni del radiometro spaziale e per dare una misura della bontà dei dati raccolti a scala globale. Radomex continuerà a operare per tutto il 2010 in modo da confrontare i dati per un periodo di tempo sufficientemente esteso».
Parallelamente a questa attività sempre presso IFAC-CNR, sono stati analizzati dati raccolti da altri sensori spaziali in modo da correlare le proprietà fisiche della calotta al segnale misurato dai satelliti. «Le nuove misure effettuate con SMOS permetteranno di aumentare le conoscenze finora acquisite ottenendo informazioni sugli strati profondi. Tali misure integrate contribuiranno a una miglior comprensione dei fenomeni climatici che interessano le aree polari e che sono direttamente correlabili a quelli che avvengono a scala globale».