Ci sono personaggi passati alla storia per aver dato il via a nuovi campi del sapere o comunque per essersi trovati come protagonisti di primo piano nella temperie culturale che ha visto nascere nuovi settori della ricerca, soprattutto in campo scientifico. È il caso di Lazzaro Spallanzani e di Gregor Mendel: il primo alle origini della biologia sperimentale, il secondo della genetica. Cogliendo questo elemento comune, Francesco Agnoli e Enzo Pennetta hanno pensato di presentare insieme i profili dei due scienziati in un volume in uscita nei prossimi giorni da Cantagalli.
In realtà, come il testo porta alla luce, ci sono anche altri fattori che accomunano i due personaggi. Uno è, evidentemente, la più ampia area di ricerca, cioè quella del mondo biologico, da sempre indagato da studiosi e filosofi ma solo dal Seicento oggetto di analisi sperimentale e comunque con un avvio “da diesel”, non certo prorompente come quello della fisica galileiana e newtoniana. Oggi la situazione è ben diversa e, benché la fisica non abbia rallentato la sua corsa (basti pensare a quel che succede al Cern) bisogna dire che le bioscienze sono cresciute enormemente e il loro sviluppo è accelerato; e ciò comporta un’accelerazione anche dei problemi e delle ricadute etiche e filosofiche che, nel caso delle scienze della vita sono ancor più acute. Anche per questo è interessante andare alle origini e far emergere un approccio a queste scienze un po’ diverso da come se ne sente parlare quotidianamente.
Parlando di Spallanzani, la sua posizione libera e attenta alla realtà lo ha portato a scoperte importanti, che hanno superato concezioni che resistevano da secoli; come nel caso della confutazione chiara e definitiva dell’idea della generazione spontanea: un risultato scientifico che gli è valso una fama a livello europeo, evidenziata dalla ammissione a una prestigiosa istituzione come era la Royal Society inglese. La sua però era una visione ampia che ha attraversato diversi settori delle scienze mediche arrivando anche ad altri risultati: sulla circolazione sanguigna, sulla riproduzione, sui meccanismi della digestione. Non senza qualche incidente di percorso e qualche errore di interpretazione, come quello che lo tenne legato alla visione preformista dell’embrione; ma questo non fa che confermare il carattere dell’esperienza scientifica come cammino umano con i suoi limiti e i suoi tentativi.
Quanto a Mendel, molto si è scritto sui suoi esperimenti ma poco si è indagato sul retroterra culturale che ha permesso il fiorire di una simile genialità in un oscuro monastero lontano dai grandi centri dove si rappresentava la scena culturale europea. Qui il volume ha il pregio di ricondurre l’esperienza del monaco biologo nel solco della grande tradizione monacale di rispetto, cura e passione per la terra e per la natura in genere; sintetizzata in un aforisma di San Bernardo di Chiaravalle che aveva predicato: «troverai più nei boschi che nei libri, alberi e rocce ti insegneranno quello che nessun maestro ti dirà».
Altro elemento comune ai due scienziati è l’attitudine sperimentale, fatta per entrambi di osservazione paziente e meticolosa, di prudente riflessione prima di comunicare i risultati.
Infine, sia Spallanzani che Mendel hanno in comune il fatto di essere stati degli ecclesiastici; ed è difficile resistere alla tentazione di pensare che sia questo il fattore che può aver prodotto quella sorta di damnatio memoriae di cui parlano Agnoli e Pennetta nel caso di Spallanzani, e quel vero e proprio oblio che ha coperto le scoperte di Mendel per oltre trent’anni fino alla loro riscoperta nel 1900 da parte di Hugo de Vries, Carl Correns ed Erich von Tschermak.
Va rilevato tuttavia che per entrambi l’appartenenza religiosa aveva agito come movente positivo delle ricerche scientifiche e non come preclusione o condizionamento ideologico. Tanto da far arrivare a Spallanzani riconoscimenti scientifici dalle fonti più insospettabili, come quella di Voltaire che lo stimava e lo definiva apertamente “primo naturalista d’Europa”.
Una differenza tra i due scienziati è nella notorietà: lo scienziato emiliano è noto al più perché compare nella toponomastica di alcune città mentre non vi è chi non conosca, almeno di nome, le leggi dell’ereditarietà dell’abate moravo. Anche in questo secondo caso, poco si sa della vita e della personalità dell’autore delle celebri leggi; e a consolidarne la fama non è bastato neppure un film (The Gardener of God, 2009) con una star del grande schermo come Christopher Lambert.
Chissà che un semplice saggio di 100 pagine, con un limitato ma significativo numero di immagini e con alcune preziose pagine di inquadramento storico del clima culturale in cui hanno vissuto i due protagonisti, non ottenga quello che non ha ottenuto il potere del grande schermo.