È stato presentato nei giorni scorsi il dossier curato dal Fai e dal Wwf “Terra rubata, viaggio nell’Italia che scompare”. Il rapporto si basa su un progetto di ricerca condotta in 11 Regioni (44% del suolo italiano), promosso dall’Università degli Studi dell’Aquila, in collaborazione con l’Università Bocconi di Milano, l’Osservatorio per la Biodiversità, il Paesaggio Rurale e il Progetto sostenibile della Regione Umbria. Stando ai dati ufficiali, l’area urbana in Italia negli ultimi 50 anni si è moltiplicata di 3,5 volte, con un aumento di oltre 33 ettari al giorno. Allarmanti le stime dei curatori, secondo i quali nei prossimi vent’anni la superficie occupata dalle aree urbane crescerà dell’equivalente di 75 ettari al giorno. Abbiamo chiesto un commento a Piero Gagliardo, ordinario di Geografia presso l’Università della Calabria.
“L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa” (Elisèe Reclus). Leggendo il dossier del Fai e del Wwf intitolato “Terra rubata. Viaggio nell’Italia che scompare”, si potrebbero accusare gli estensori della ricerca di “buonismo” nei confronti del popolo italiano. Infatti, come si legge dalle notizie mediatiche, in questo Paese si ruba non solo la terra, si rubano i soldi dalle casse dei partiti, si rubano gli stipendi, si rubano le case a vista Colosseo, si rubano anni di vita alle persone accusate ingiustamente da giudici imperfetti, si rubano posti di lavoro alle giovani generazioni per non sapere generare e organizzare forme di lavoro appropriate all’evoluzione dei tempi, si ruba la speranza in un mondo migliore annunciando soltanto le notizie negative della nostra società, si ruba attraverso la corruzione e la criminalità. “In questo mondo di ladri” cantava Antonello Venditti, ammorbidendo poi l’epiteto con l’aggiunta di “santi ed eroi”. Dunque, va tutto male o bene, che è poi la stessa cosa per i qualunquisti? Ecco alcune mie riflessioni.
Prima di tutto un grande plauso a Fai e Wwf per avere realizzato un’opera di così rilevante portata sia sul piano scientifico che su quello documentario: una forte testimonianza e una spietata denuncia all’opinione pubblica e al mondo politico sul consumo non pianificato della terra, anche se, talora, mancano le fonti di alcuni dati importanti. D’altronde, è noto che, spesso, i dati sono considerabili all’interno di un range di valori probabili. A mio parere, ciò che va osservato principalmente è il fenomeno in quanto tale, che corrisponde a una lenta ma inesorabile e progressiva copertura dei suoli per l’edilizia e le infrastrutture, a completo discapito del mondo rurale. Questo mi sembra essere un dato inconfutabile, al di là dei numeri che possono essere più o meno attendibili.
Solo che, dopo quarant’anni di denunce e di allarmismi, dai “The Limits to Growth” di Donella Meadows (1972), fino a “Prosperity without Growth: Economics for a Finite Planet” di Tim Jakson (2009), sembra che i paesi più sviluppati del Pianeta siano fossilizzati su un’idea dominante: bisogna ridurre la dinamica della popolazione e delle relative abitazioni e infrastrutture a causa di un’indiscussa e cronica carenza di risorse per tutta la popolazione mondiale. Onestamente, questi pressanti giudizi sugli eccessi di crescita della popolazione, di infrastrutture, di edilizia, di consumi di risorse, rinnovabili e non, non mi convincono culturalmente, non perché il problema non sussista, ma perché le valutazioni sulla crescita sono poste in termini ideologici, al di fuori di qualunque dimensione etica: di fatto le risorse non bastano per tutti perché noi, popoli agiati, non le distribuiamo. Il divario è paurosamente nascosto all’interno di giochi di potere, indegni di esseri umani come ci vantiamo di essere.
In pratica, noi, popoli europei, siamo dei neomaltusiani che, ben consapevoli della differente velocità di crescita delle risorse rinnovabili rispetto alla dinamica esponenziale della popolazione sottosviluppata del Pianeta, riteniamo che i poveri debbano “andare alla malora”, perché incapaci di autosostenersi, mentre ai ricchi spetta l’onere di incrementare continuamente le proprie fortune. In altri termini, abbiamo una visione del mondo antropocentrica valida solo per le classi più agiate. È per questi motivi che mi dissocio ampiamente da quelle mode scandalistiche, generate da coloro che osservano, talora anche acutamente, i problemi ambientali del Pianeta e li denunciano con drammatica veemenza: ne scaturisce una carica accusatoria che li fa sembrare estranei a quanto vanno denunciando o addirittura immuni dal consumare le risorse della Terra e, quindi, innocenti spettatori dei disastri ambientali.
Mi dissocio perché ritengo che la visione antropocentrica del mondo abbia fatto il suo tempo, sia ampiamente obsoleta e, al fondo, inutile per migliorare la qualità della vita della nostra Terra. Credo che, in una concezione olistica, debba essere posto al centro del mondo più propriamente il significato del mondo stesso, non le singole entità che lo costituiscono, ma il loro ruolo, le loro funzioni, la curiosità di comprenderne le relazioni, che nessuno possiede pienamente come consapevolezza esaustiva. Ciò comporta un percorso di ricerca, di analisi, di errori, di abbagli, di incomprensioni, di violenze, ma anche di bellezza, di stupore, di desiderio, di incontri.
Il significato della realtà è nell’universo stesso, nella sua origine e nel suo destino, ma anche in noi stessi che ne siamo portatori spesso inconsapevoli. Possiamo anche non chiamarlo Dio, se consideriamo le religioni una contaminazione negativa dell’essere umano, ma lo dobbiamo comunque cercare, perché ci urge dentro come il bisogno di respirare. Solo così, a mio parere, è possibile cogliere in termini positivi lo sconforto pessimistico che traspare dall’importante documento del Fai e del Wwf sulla terra rubata; una ricerca coraggiosa e profondamente utile alla società, al mondo politico, a ogni singolo essere umano di questo nostro straordinario Paese: ma, senza l’affermazione di un punto di vista sinottico e positivo, non potremo afferrare il senso di un profondo rispetto nei confronti della natura in questo meraviglioso frammento dell’universo in cui siamo vivi.