“…di notte brilla con mille sorelle e par che il cielo abbia perso le stelle…”. Questa filastrocca parla della lucciola, un coleottero appartenente alla famiglia Lampyridae che, col suo intermittente luccichio, rallegra le nostre serate estive donando emozioni a grandi e piccini.
Il fenomeno per cui gli esseri viventi emettono luce prende il nome di bioluminescenza. È sviluppata in particolare nel mondo marino ma riguarda anche animali terrestri come alcune specie di vermi e, naturalmente, le lucciole.
La lanterna di questi coleotteri è costituita di tre parti: lo strato basale di cellule, contenenti numerosi e minuscoli cristalli di sali, è in grado di riflettere la luce in modo che questa non penetri nell’animale; lo strato intermedio costituisce l’organo fotogeno vero e proprio, le cellule che lo compongono sono dotate di un elevato numero di mitocondri per la produzione dell’energia necessaria al processo; il terzo ed ultimo strato è trasparente e racchiude il precedente.
Il principio base della bioluminescenza è l’emissione di energia quantica sotto forma di radiazione luminosa da parte di alcune molecole nel passaggio da stato eccitato a stato fondamentale. Nella lucciola questo fenomeno implica l’azione di due composti chimici: un substrato organico che emette la luce, chiamato “luciferina”, e un catalizzatore chiamato “luciferasi”. La luciferina è una proteina che reagisce in presenza di ossigeno, di ATP e dell’enzima luciferasi liberando energia sottoforma di luce. Si tratta quindi sostanzialmente di una reazione di ossidazione.
Questo tipo di emissione luminosa non produce praticamente alcun calore e perciò si dice che i coleotteri emettano luce fredda. Ciò è dovuto al fatto che nel processo della bioluminescenza quasi tutta l’energia viene convertita in radiazione luminosa, con un’efficienza del 95%, dato assai considerevole se si pensa che quella di una lampadina di casa a incandescenza è solo del 5%, mentre la restante energia entrante viene convertita in calore.
Stimolati da questo grande rendimento energetico, alcuni scienziati dell’Università di Syracuse (Usa) hanno cercato un modo per sfruttare ad uso produttivo il processo di bioluminescenza finora descritto. Il concetto base sta nell’imbrigliare la biologia in applicazioni non biologiche. Mathew Maye e Rebeka Alam sono i due ricercatori a capo della missione: con l’ausilio della nanoscienza stanno lavorando per produrre nanofibre che ottimizzino il trasferimento di energia utilizzando l’enzima luciferasi. Al progetto collaborano anche Bruce Branchini e Danielle Fontaine, entrambi provenienti dall’Università del Connecticut.
Nel laboratorio di Maye, alle nanofibre viene applicato il catalizzatore biologico; in seguito, come combustibile della reazione, viene aggiunta luciferina. A questo punto scatta la reazione e l’energia rilasciata viene trasferita alla fibra, che si illumina. Il processo è chiamato BRET (Bioluminescence Resonance Energy Transfer).
Per incrementare l’efficienza del sistema è necessario ottimizzare l’architettura della fibra, cercando di ridurre al minimo la distanza tra questa e l’enzima. Al fine di ottenere questo risultato i ricercatori del progetto hanno manipolato geneticamente il catalizzatore luciferasi in modo che potesse aderire direttamente alla superficie della struttura. Questa è composta da un guscio esterno di solfuro di cadmio e da uno interno di seleniuro di cadmio; si tratta in entrambi i casi di metalli semiconduttori.
Andando ad agire sul diametro e sulla lunghezza della fibra si possono inoltre ottenere più colorazioni per la luce emessa (rosso, verde e arancione), non possibili nel sistema naturale. Gli studi sinora condotti hanno dimostrato che le più ampie efficienze raggiungibili si hanno per le fibre la cui architettura porta a radiazioni luminose nel vicino infrarosso, ossia per lunghezze d’onda maggiori di quelle della luce visibile. Le applicazioni dei raggi infrarossi sono numerose e vanno dalla visione notturna all’utilizzo in campo medico.
La sfida di Alam e Maye è ora quella di perfezionare il sistema studiato sviluppando un metodo che consenta di sostenere le reazione chimiche e il trasferimento di energia per periodi di tempo maggiori. Attualmente le microfibre ottenute in questi studi non sono in produzione, se non a livello di laboratorio ma Maye è certo che troveranno ampio utilizzo in tutte quelle tecnologie che convertiranno l’energia chimica in luce.