Il celebre matematico Godfrey Harold Hardy, nella sua Apologia di un matematico scriveva: «Non ho mai fatto niente di “utile”. Nessuna mia scoperta ha fatto o potrebbe fare, direttamente o indirettamente, nel bene o nel male, la minima differenza per la piacevolezza del mondo». Questa citazione, che potrebbe far pensare a una distanza incolmabile tra scienza pura e applicata, viene riportata da Sergio Carrà nel recente saggio Ricerca scientifica e tecnologica. L’incerta alleanza (Il Mulino) proprio come testimonianza del contrario: Carrà ricorda che al matematico inglese si deve l’elaborazione del principio noto come “principio di Hardy-Weinberg” che ha avuto ampia applicazione nella genetica delle popolazioni. A riprova della possibilità e della necessità di una alleanza tra ricerca pura e applicata, come «componente inalienabile della nostra cultura e del nostro agire».
Ma perché “incerta” alleanza? Incontriamo il professor Carrà – chimico emerito del Politecnico di Milano e socio della Accademia Nazionale dei Lincei – nel corso di una presentazione del suo libro e ci chiarisce il perché di quel titolo, che è «certamente un po’ provocatorio, ma riflette un andamento storico: se andiamo a vedere la storia, troviamo che gran parte delle innovazioni tecnologiche sono state realizzate da persone che erano al di fuori della scienza ufficiale; Edison è un caso eclatante ma ce ne sono molti altri. In realtà però questa alleanza ci vuole, anzi va rafforzata: sempre la storia ci dice che nei momenti in cui scienziati e tecnologi hanno saputo lavorare insieme sono arrivati risultati magnifici».
Oggi non a caso si parla di tecnoscienza, quasi a sancire sul piano lessicale l’avvenuta alleanza. «È la maturazione di un cammino storico, che ha fatto registrare questa evoluzione e ha portato a questo stretto legame, in certi casi ormai inestricabile. D’altra parte oggi siamo di fronte a problemi di tale portata e di tale urgenza per cui la sinergia tra scienza e tecnologia, a mio avviso, deve essere sempre più forte. Pensiamo ad esempio alla prospettiva del computer quantistico: è un’ipotesi che viene da una teoria molto complessa e ci vorranno dei tecnici che sappiano applicarla al meglio; ma questi dovranno possedere pienamente tutto l’impianto teorico sottostante».
C’è un modo però di impostare e raccontare il rapporto tra scienza e tecnologia che appare sempre più inadeguato: è quello basato sul semplice “paradigma lineare”, secondo il quale la tecnologia non è altro che l’applicazione delle conoscenze scientifiche per il raggiungimento degli obiettivi posti dalle necessità umane. La ricerca quindi attraverserebbe due fasi, che si succedono in cascata: l’indagine che Carrà chiama “esplorativa”, guidata dalla curiosità e volta a scoprire cose nuove; e quella guidata dai problemi e tesa alla loro soluzione. «In realtà – nota il nostro interlocutore – la maggiore incertezza in questo paradigma riguarda la prima parte, nella quale si deve essere in grado di individuare nel materiale proveniente dalla ricerca i risultati sui quali conviene puntare in vista delle successive attività applicative».
Viene quindi alla ribalta un nuovo paradigma, denominato “nexus”, che tiene conto dell’insufficienza di un approccio riduzionistico e della crescente complessità dei fenomeni e delle situazioni. Il termine nexus indica l’importanza delle correlazioni tra i vari elementi che vanno visti come nodi connessi di reti sempre più articolate. Ma dove si applica questo nuovo paradigma? «Si applica a tutto, ovunque ci siano delle reti, delle connessioni di qualunque tipo, culturale, sociale, di trasporto, di comunicazione. È un concetto potente, che funziona molto bene perché ci aiuta a capire meglio la realtà e quindi ad avvicinare di più la ricerca alle applicazioni, ai reali bisogni».
È inevitabile a questo punto riportare il discorso alla situazione italiana: quali sono i punti più critici? «Ritengo che noi dobbiamo essere più razionali, mettere a punto un preciso piano industriale dove stabilire con chiarezza quali sono i settori in cui si deve insistere con uno sviluppo applicativo; e intanto continuare con le ricerche “esplorative”, cercando però sempre di capire come possono avere delle ricadute. Ma si tratta di un approccio finora ampiamente disatteso».
Nonostante le sue analisi severe, Carrà si dichiara decisamente ottimista, soprattutto in una visione globale. «Non c’è nessuna ragione per essere pessimisti e per disperare nelle capacità dell’uomo di crescere; l’uomo ha sempre trovato qualcosa che gli ha permesso di superare difficoltà e crisi. Basta guardare ancora la storia; gli esempi sono tanti. Si pensi al caso dei materiali, prima con l’arrivo dei polimeri, poi con gli attuali nuovi materiali; o all’energia: sembrava una situazione disastrosa, poi si è scoperto che c’è ancora un sacco di petrolio e spuntano altre risorse. Nel mio libro faccio riferimento a due nuovi settore di ricerca la cui affermazione potrebbe ripercuotersi in modo significativo sulle tecnologie chimiche produttive, incluse quelle coinvolte nelle questioni energetiche e ambientali: parlo della biologia sintetica e dell’ingegneria metabolica. Non condivido affatto il catastrofismo; che è quasi sempre strumentale e mosso da particolari interessi economici».
Queste ragioni di ottimismo sono leggermente offuscate dall’osservazione conclusiva del libro, che indica una condizione necessaria per l’attuazione di un cammino positivo di crescita: «è necessaria unagovernance mondiale in grado conciliare l’interessa dei singoli con quello generale».Una prospettiva – nota con preoccupazione il professore – auspicata da tutti a parole ma che «appare nei fatti ancora remota, se non addirittura utopica».
(Michele Orioli)