Nella prestigiosa rivista Science è comparsa recentemente una ricerca sviluppata in collaborazione da sei diversi gruppi statunitensi, facenti capo a società biotecnologiche e università. I risultati pubblicati hanno suscitato ampio interesse nella comunità scientifica ed anche al di fuori, in quanto essi hanno portato all’assemblaggio di un Dna “alternativo” rispetto a quello naturale.
È opportuno rammentare che negli organismi il Dna codifica le proteine, che nel loro insieme costituiscono il macchinario che sostiene quasi tutte le funzioni, a livello cellulare e di organismo. Le proteine sono polimeri lineari costituti dall’assemblaggio di un repertorio di 20 diversi amminoacidi, e ciascuna di esse può consistere di un numero variabile di amminoacidi (da poche decine a diverse migliaia). Il Dna è a sua volta un polimero lineare che codifica l’informazione con un alfabeto di “quattro lettere”: chimicamente si tratta di quattro nucleotidi, consistenti di una diversa base azotata, dello zucchero deossiribosio e di un fosfato. Le basi sono adenina, timina, guanina e citosina (abbreviate rispettivamente in A, T, G e C).
La sequenza in basi costituisce il contenuto di informazione del Dna. Esso inoltre è composto di due filamenti, che si avvolgono l’uno sull’altro a formare la ben nota “doppia elica”, e le loro sequenze in basi sono complementari; vale a dire, quando in un filamento in una data posizione della sequenza è presente un’adenina, nell’altro filamento alla corrispondente posizione è presente una timina; e così pure a una guanina corrisponde una citosina.
I geni sono tratti di Dna che codificano proteine. Il codice genetico stabilisce la corrispondenza tra qualsiasi sequenza di tre basi e un determinato amminoacido; più specificamente, ognuno dei 20 amminoacidi è codificato da una o più sequenze di tre basi detta codone. Inoltre, per essere utilizzata per la sintesi delle proteine, l’informazione contenuta nel Dna deve essere dapprima “trascritta” in un altro acido nucleico, l’Rna, simile al Dna ma con alcune importanti differenze (il ribosio al posto del deossiribosio; l’uracile al posti della timina, e una struttura a singolo filamento).
Questo detto, con il lavoro scientifico menzionato gli scienziati americani sono riusciti a produrre un Dna artificiale contenente otto “lettere”, vale a dire quattro nucleotidi in più in aggiunta ai normali A, T, C, G. Tali nucleotidi sono indicati in modo abbreviato con S, B, Z, P (anche se naturalmente a ciascuno di essi corrisponde una denominazione e struttura chimica ben specifica). Strutturalmente, essi sono parenti stretti di quelli convenzionali, e come quelli convenzionali sono in grado di appaiarsi due a due (S con B e Z con P).
Dopo avere prodotto il Dna a otto lettere, gli scienziati hanno inoltre dimostrato che l’introduzione di questi quattro nuovi nucleotidi, con il loro specifico sistema di appaiamento, non modificava apprezzabilmente né la struttura complessiva a doppia elica, né la stabilità di questo Dna artificiale rispetto a quello naturale. In una parola, i nuovi nucleotidi si accomodavano all’interno della struttura complessiva del Dna allo stesso modo di quelli naturali.
Successivamente gli sperimentatori hanno voluto verificare se la Rna polimerasi, l’enzima che trascrive l’informazione contenuta nel Dna producendo un filamento complementare di Rna, potesse funzionare altrettanto bene con il Dna artificiale. È stata utilizzata allo scopo una Rna polimerasi naturale, che si è dimostrata in grado di trascrivere le sequenze contenenti tre basi artificiali su quattro ma non della base indicata con la lettera B. Tuttavia ciò è stato dimostrato possibile usando una variante artificiale di tale polimerasi (in cui tre amminoacidi erano stati mutati). Tale variante trascriveva infatti senza alcuna restrizione l’intero Dna artificiale.
Nell’insieme, queste sperimentazioni dimostrano che il sistema di immagazzinamento e codificazione dell’informazione genetica di cui si avvalgono tutti gli organismi a noi noti non è necessariamente l’unico. Significativamente, l’articolo scientifico asserisce, come considerazione conclusiva: “questo lavoro espande il repertorio delle strutture che potremmo incontrare nella ricerca della vita nel cosmo”. Indiscutibilmente, questo e molti altri simili contributi suggeriscono che i sistemi molecolari presenti negli organismi rappresentino un repertorio ristretto, tra tutti quelli che avrebbero potuto essere selezionati nel corso dell’evoluzione. Ma è anche vero che in ogni caso la chimica, la fisica e la spinta evolutiva all’ottimizzazione delle funzioni impongono dei vincoli piuttosto stretti nella selezione delle soluzioni più vantaggiose per gli organismi.