In regione Emilia-Romagna si sta combattendo uno scontro tra maggioranza e opposizione sulla sanità privata accreditata. I fatti e i numeri
Quel che accade nel sistema sanitario dell’Emilia-Romagna riguarda un po’ tutti. E non è solo questione di dialettica politica pro o contro determinati modelli. C’è in ballo come si possa sostenere un sistema sanitario tendenzialmente universalista e inclusivo, garantito da servizi statali regionali e dal privato accreditato, senza insormontabili barriere assicurative.
L’ultima grana esplosa nei giorni scorsi a Bologna tra giunta regionale, guidata dal neogovernatore Michele De Pascale, e l’ospedalità privata di area Confindustria, in sigla Aiop, ha risvolti pesanti sia giuridici che politici.
L’Aiop dell’Emilia-Romagna associa 44 ospedali e assicura il 25% delle prestazioni sanitarie di tutta la regione, con un prelievo del solo 9% dal fondo sanitario regionale, nonché il 32% dei posti letto ospedalieri.
Già questi dati sconfessano luoghi comuni diffusi che vogliono l’Emilia terra promessa della sanità pubblica, nel senso restrittivo che piace a sinistra della sola gestione statale. Il privato sanitario, contrariamente alla vulgata, c’è tra Piacenza e Rimini, in percentuale rilevante e con voci di qualità decisive, indispensabili, ad esempio in cardiologia.
Con una mossa a sorpresa, la giunta emiliano-romagnola ha revocato – ufficialmente per “autotutela” – gli effetti di due sue precedenti delibere, con le quali la precedente giunta regionale andava a coprire i costi vivi sostenuti dagli aderenti all’Aiop, per fronteggiare tra il 2020 e il 2022 la pandemia da Covid-19, al servizio della sanità pubblica in crisi, su richiesta del governo regionale.
Ad esempio mettendo a disposizione personale, fornendo e mantenendo aperti servizi sanitari ospedalieri e ambulatoriali, nonostante l’inevitabile calo di fatturato dovuto alla crisi pandemica ed in assenza di propri ammortizzatori sociali settoriali. Parliamo di 80 milioni di euro che, ora, la giunta De Pascale vorrebbe addirittura indietro, violando obblighi contrattuali già adempiuti dalla controparte.
La consigliera regionale civica Elena Ugolini, già candidata governatrice, ha avuto immediato buon gioco a parlare di un “pericolosissimo e inaccettabile precedente”, una vera e propria insostenibile violazione contrattuale, del quale sarà tutta da verificare la sostenibilità giuridica, se l’Aiop, come ha subito minacciato, ricorrerà alla giustizia amministrativa.
Dati alla mano, Ugolini ha dimostrato che l’ospedalità privata ha prodotto quello che doveva senza aggravio di costi, senza insomma lucrare. Non si tratta di difendere il privato contro il pubblico, ha aggiunto, ma di guardare i dati reali.
Il privato accreditato è costato alla Regione 650 milioni e ha prodotto prestazioni per questa cifra, essendo pagato solo in funzione di prestazioni effettuate. Gli ospedali pubblici sono costati 3.500 miliardi ed hanno erogato prestazioni per 1.923 miliardi (ovviamente l’ospedalità pubblica deve farsi carico obbligatoriamente di servizi e prestazioni costose, universali e non duplicabili).
De Pascale, per difendere l’azzardo e replicare a Ugolini, ha messo in campo la retorica standard elettorale della sinistra: mai subordinati al privato! Sottintendendo dunque che privato è uguale a discutibile lucro.
A suo dire non c’è sanità al mondo che possa reggere in mano ai privati. Ma in questa vicenda non c’è alcuna prevaricazione da parte del privato, semmai il contrario.
Il guaio è che nemmeno la vantata severa gestione “pubblica” assicurata dal governatore riesce a contenere i costi. E di recenti esperimenti costosi e fallimentari si potrebbe parlare a lungo. Si tratta perciò di espedienti comunicativi.
Al contrario, è la sanità pubblica che non reggerebbe, nemmeno in Emilia-Romagna, senza l’ospedalità privata accreditata. Il mix variabile dei due soggetti, certo a guida “pubblica” del sistema, è l’unica certezza per tentare di reggere una sanità universalista.
La vicenda ha risvolti politici complicati: De Pascale ha, volente o nolente, sconfessato i predecessori Stefano Bonaccini e Irene Priolo, quest’ultima governatrice ad interim dopo l’andata in Europa di Bonaccini. Da registrare che la delibera regionale decisiva del 2024, ora “revocata”, fu emessa dalla Priolo – volutamente, vien da dire – in piena campagna elettorale regionale. Nel circuito politico c’è già chi va dicendo che se tali atti fossero illegittimi, mentre l’Aiop risulti aver adempiuto ai propri doveri, il possibile danno erariale e la restituzione degli 80 milioni sarebbe da imputare non certo all’Aiop ma alle giunte precedenti. Un film che non vedremo, salvo colpi di scena giudiziari.
Molti addetti ai lavori sono del resto convinti che una ragione chiave della mossa regionale sia dettata in realtà dalla disperata e annosa situazione dei conti sanitari della Regione, 10 miliardi circa di spesa, che non si riescono a far quadrare senza dolorosi tagli. Naturalmente, tra gli argomenti messi in campo dal governatore c’è la convinzione ripetuta che Roma, cioè il governo, stia sottofinanziando il sistema sanitario.
Tra le scelte del ministero dell’Economia (Mef) ritenute esiziali per i conti sanitari dell’Emilia-Romagna, ci sarebbero i forti limiti previsti per ridurre la mobilità sanitaria tra regioni, una voce che premia lautamente i sistemi sanitari del Nord, notoriamente più attrattivi. Per l’Emilia-Romagna sarebbe una perdita rilevantissima, che ricadrebbe anche sull’ospedalità privata accreditata. Sul tema mobilità sarebbe in corso una vera e propria guerra nelle retrovie istituzionali.
La stessa pesante mossa bolognese della revoca degli accordi con Aiop avrebbe in realtà il fine non nascosto di forzare la Confindustria a pressare il governo nazionale, e segnatamente il Mef, perché allenti le restrizioni e rifinanzi la sanità regionale.
D’altra parte, le restrizioni – è risaputo – sono funzionali a tenere l’imponente debito pubblico italiano sotto controllo e la credibilità dell’Italia al riparo delle tempeste dei mercati e dei poteri finanziari, tema chiave e finora in qualche modo riuscito alla gestione di Giorgia Meloni.
È questo il contesto, drammatico sul piano dei conti pubblici, in cui non serve la vecchia retorica implicita del privato “cattivo” e del pubblico-statale “buono” a priori. I fatti parlano e contestano. Il dramma è forse che manca – tanto a Bologna quanto a Roma – un vero e lungimirante pensiero a lungo termine sul sistema sanitario, con relative alleanze istituzionali, politiche, sociali, al di là delle semplificazioni propagandistiche. Bologna in ogni caso non è esente.
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