Qualche sera fa, a cena con alcuni amici, tutti cattolici ma di varia provenienza associativa o partecipativa, uno di loro (ex dirigente scolastico in una scuola statale) lamentava lo scarso peso, per non dire l’irrilevanza, della presenza cattolica nelle politiche educative, e ognuno di noi formulava ipotesi sulle cause e sui possibili – ma improbabili – rimedi. Alla fine, siamo arrivati a convergere sull’idea che bisognerebbe trovare un tema intorno a cui mobilitare i diversi gruppi, movimenti, associazioni, per cercare alleanze ed esercitare pressioni con qualche possibilità di successo, tema però che non è facile individuare.
Un’ipotesi realistica suggerisce che i cattolici dovrebbero convergere sulla difesa del diritto della famiglia ad esercitare la libertà di educazione, garantita dalla Costituzione e da una serie ininterrotta di documenti delle organizzazioni internazionali. Questo si traduce, anche e soprattutto, nella possibilità di scegliere la scuola e gli insegnanti dei propri figli anziché affidarli alla sorte, sia per quanto riguarda l’impostazione valoriale, sia per quanto riguarda la qualità.
Ora, una scelta è libera non solo se la Costituzione la garantisce, ma se si può optare per una scuola statale o paritaria, che insieme costituiscono il sistema nazionale, alle stesse condizioni, il che non è, perché le scuole paritarie non hanno un finanziamento pubblico, se non in misura estremamente ridotta, e richiedono una retta. Come scriveva Piero Romei, troppo presto scomparso, la scuola italiana è un’organizzazione “domestica”, che come i gatti e i cani di casa si trova il cibo assicurato, senza bisogno di darsi da fare per procurarsi il pasto quotidiano: per migliorare la qualità della sua offerta avrebbe bisogno di “inselvatichirsi” un po’, introducendo elementi di competizione.
In altri termini, si può anche dire che la scuola statale fa un’azione di dumping, offrendo un servizio sottocosto, o meglio più costoso di quello delle paritarie, ma sostenuto non dal consumatore, ma dalla collettività, e quindi rendendo estremamente difficile la concorrenza, oltre che impossibile la stima del rapporto fra costi e benefici.
Non intendo riassumere tutto il fiume di inchiostro (di bites?) versato su questo tema, a cui negli ultimi quarant’anni temo di aver dato un consistente contributo, ma vorrei cercare di capire se e come si può superare il malefico mantra del “senza oneri per lo Stato”.
Esempio 1: lo Stato, essendo un soggetto autonomo e libero, non è obbligato a finanziare del tutto o in parte le scuole non statali, che pure i cittadini hanno il diritto di aprire, da soli o in forma associata, rispettando i vincoli posti dalla legge, ma può farlo. In passato furono finanziate le scuole elementari in situazioni in cui esisteva già una scuola privata, e sarebbe stato troppo costoso per lo Stato istituirne una; analogamente, a Milano, si sono stipulati accordi per mettere a disposizione del comune, una volta esauriti i posti pubblici, posti nella scuola per l’infanzia a prezzo convenzionato, 2.834 euro, pari a circa la metà della spesa sostenuta per le istituzioni pubbliche. Oggi, nel quadro dell’investimento previsto dal Pnrr per il potenziamento della scuola dell’infanzia, le convenzioni con gli asili e i nidi privati accreditati consentirebbero di fornire un servizio a molti più bambini delle famiglie disagiate, che non aprendo nuove scuole. In un suo interessante articolo sul Corriere della Sera del 15 ottobre, “i paradossi degli asili nido”, Giampiero della Zuanna stima che siano almeno il triplo, ragionando sulla situazione di Padova, ma le sue considerazioni valgono per l’intero paese.
Esempio 2: se finanziare le scuole dal centro, lasciando loro la massima autonomia per raggiungere gli obiettivi, e controllando con rigore gli esiti, non costituisce un aggravio ma un risparmio, non si capisce perché lo Stato non dovrebbe spendere meglio i soldi dei cittadini adottando un modello decentrato, garantendo loro per di più l’esercizio di un diritto primario. Questo argomento, più volte illustrato conti alla mano, e facendo notare che vale sia per le scuole statali, autonome di nome ma non di fatto, che per le scuole paritarie, non ha mai trovato un reale ascolto. Ogni proposta di sperimentazione presentata, tanto per dirne una, da Ichino e Tabellini, ma anche da altri, è stata semplicemente ignorata.
Esempio 3: se il cittadino di cui sopra desidera essere curato non nell’ospedale più vicino a casa, ma in una struttura accreditata, i costi vengono sostenuti dallo Stato, del tutto o in parte, e le spese mediche non rimborsate possono in larga misura essere detratte dalle tasse. In base all’idea che la qualità di un servizio pubblico non è legata alla proprietà del servizio stesso, ma alla sua capacità di rispondere ad un bisogno, mi parrebbe accettabile estendere questa logica anche alle scuole accreditate, la cui natura pubblica è garantita dallo Stato che controlla il possesso di un lungo elenco di requisiti (che poi alcune delle scuole statali questi requisiti non li abbiano, è un altro discorso). Ma anche in questo caso la risposta è stata negativa, o anzi al contrario si è proposto di eliminare o ridurre le convenzioni col privato nel campo della sanità.
Esempio 4: un certo numero di Regioni ha introdotto dopo la legge 62 varie forme di buono scuola, per aiutare le famiglie a basso reddito a sostenere le spese per l’istruzione dei figli, anche nelle scuole non statali. La maggior parte di queste sperimentazioni si è chiusa, o drasticamente ridimensionata, senza nessuna seria indagine sugli esiti, e le analisi fatte, come in Lombardia, hanno avuto poco riscontro nella comunicazione, benché ne sia derivata la trasformazione in “dote scuola”, un aiuto generalizzato alle famiglie per sostenere i percorsi di formazione dai 3 ai 21 anni.
Come si vede, sarebbe possibile sostenere con valide ragioni (ne ho citate solo alcune) il discorso, collegato inestricabilmente, dell’autonomia e del diritto di scelta (se le scuole anziché autonome, fossero tutte uguali, cosa con tutta evidenza non vera, che senso avrebbe una scelta?), se non altro per ottenere una sperimentazione, e su questo fronte un impegno comune dei cattolici potrebbe trovare valide alleanze: non si dimentichi che la legge 62 è stata varata non nei cinquant’anni di ministri democristiani, ma dal ministro Berlinguer, in un governo di sinistra.
Il maggio francese scriveva sui muri “Ce n’est qu’un debut. Continuons le combat!”: facciamo nostre queste parole… E speriamo che finisca meglio.
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