La locuzione “fare memoria”, nel mondo della scuola, è sempre sulla bocca di tutti. Oltre alla classica Giornata della memoria, ci sono i “viaggi della memoria”, gli “spettacoli teatrali della memoria”, i “cineforum sulla memoria” e via discorrendo. Da ingenuo professore di storia, ho sempre pensato che “fare memoria” fosse il mio compito. Tra tutti gli insegnanti di un consiglio di classe chi è più indicato per – appunto – tramandare un ricordo ai posteri?
Eppure vi confesserò una sconfortante e terribile verità: qualcosa non funziona in questo gioco. Per diverso tempo ho pensato di essere io il problema, di essere un insegnante di storia pessimo, che non entusiasma, non commuove, non sa rendere partecipi i ragazzi di questa benedetta “memoria”. Poi però, ferma restando l’intima convinzione di avere dei limiti personali, ho capito che qualche ingranaggio rotto a livello più generale da qualche parte ci deve essere.
Con i miei studenti, in occasione della Giornata della memoria, invece di parlare del genocidio degli ebrei e delle nefandezze dei campi di concentramento ho proprio chiesto loro, come un mendicante in cerca di risposte che non avevo, cosa voleva dire per loro quel momento. Un meccanismo, ecco cosa percepivano: campanella che suona, minuto di silenzio, pezzi di qualche film ormai più o meno conosciuto – ironia della sorte – a memoria (Il bambino con il pigiama a righe impera, tallonato a poca distanza da La vita è bella). That’s all, folks. Un istante di contrizione a comando, il più delle volte finta, e via. Noia, ecco quel che resta.
Niente di eclatante, la noia nei nostri studenti impera pressoché sempre; quei pochi, troppo pochi, minuti di fascino strappati titanicamente al nulla in un’ora di lezione sono rari e preziosi diamanti, che conserviamo gelosamente nello scrigno del nostro cuore.
La storia – mi sottolineano i ragazzi con un certo cinismo, condito da una scrollata di spalle – dopotutto, non insegna proprio niente, se non ad ammazzarci in maniera più efficiente e inventare menzogne sempre più raffinate per giustificare la necessità del genocidio di un popolo piuttosto che un altro. I perseguitati di ieri diventano i persecutori di domani, per calcolo, potere o vendetta. Parafrasando il loro pensiero in termini forse un po’ troppo poetici, sfruttati e sfruttatori si cambiano continuamente di posto come in un eterno gioco di sedie musicali.
Rincorrendo i pensieri insieme, si arriva naturalmente al “cosa serve”. Cosa serve studiare, cosa serve votare, cosa serve… tutto. La vita è come una scatola di cioccolatini, ma in fondo tutti dello stesso, stantio sapore e colore. L’importante è mangiarne quel tanto che basta da essere sazi e stare bene. O non stare troppo male, forse.
L’aggressione davanti al Liceo Michelangiolo di Firenze e tutta la gigantesca polemica che ne è seguita mi ha dato ulteriormente da pensare. Cosa dovrei provare? Sconcerto? Sdegno? Paura? Tutti sentimenti giusti, per carità, ma non colgono appieno il punto, temo. E chi crede che il punto sia il fascismo e di evitare che torni, gratta solo la superficie del problema. La questione è che noi “vecchi” dobbiamo imperativamente tornare (o iniziare) a insegnare ai giovani ad essere di nuovo “giovani”.
Così cantava Giorgio Gaber nel lontano 1996: “Questa strada non sarebbe disperata/ Se in ogni uomo ci fosse un po’ della mia vita/ Ma piano piano il mio destino/ È andare sempre più verso me stesso/ E non trovar nessuno”.
E aveva ragione da vendere: vedere la bellezza del mondo è difficile se tutto sa di cenere. Non si tratta di nascondere le brutture, non si tratta di mascherare la verità. Ma di credere che valga la pena lasciarsi sorprendere dal mondo che ci circonda, aprirsi all’altro non perché serve, ma perché affascina. E non chiudersi nella disincantata solitudine e nella triste e stupida indifferenza, che tanto spesso sfocia nella paura, nell’odio e nella violenza. E quelle sì, che portano alle peggiori dittature del pensiero unico.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.