Al Meeting di Rimini oggi si parla anche dell'intreccio tra fragilità e lavoro, tra l'esperienza di una mancanza e il desiderio di un riscatto
Il titolo del Meeting di Rimini di quest’anno – Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi – mi ha fatto pensare immediatamente ai ragazzi che tra pochi giorni incontreremo con l’inizio delle lezioni in Piazza dei Mestieri. Ragazzi non diversi da quelli che incrociano gli adulti di Famiglie per l’Accoglienza, promotori insieme a Cdo Opere Sociali di un incontro dedicato a un tema cruciale: fragilità e lavoro.
Sono ragazzi che spesso appaiono come senza meta, che cercano un luogo in cui fermarsi per non arrendersi al deserto che percepiscono attorno a sé. Ragazzi disorientati, in cerca di qualcuno che li aiuti a orientarsi, alla ricerca di spazi in cui sentirsi accolti. Giovani che oggi vengono spesso definiti “fragili”.
Dal mio osservatorio – quello di chi lavora nella formazione con ragazzi che hanno avuto un percorso scolastico difficile, che hanno fatto a botte con la scuola, spesso provenienti da contesti economici e sociali complicati – posso dire che la fragilità non deve spaventarci.
Non è un difetto, ma la condizione naturale di chi cresce, di chi è in cammino, anche attraverso il deserto. È il terreno in cui la fiducia può mettere radici. Se sappiamo accompagnarli proprio in quella fragilità, la scommessa si trasforma in un patto: un patto di futuro, che nasce dalla percezione – talvolta espressa in modo confuso – che nella vita manchi qualcosa.
A volte ciò che manca sono i soldi, altre volte la presenza di adulti o di amici, altre ancora le competenze. Ma, in ogni caso, nei giovani che incontro la fragilità è soprattutto apertura, domanda, possibilità. La sfida è non etichettarla, ma accompagnarla. Diventare compagni di viaggio dentro il deserto. In una parola: scommettere su di loro.
E allora mi domando: cosa significa scommettere sui nostri ragazzi? Non certo giocare d’azzardo con il loro futuro. Significa piuttosto non lasciarci intimidire dalle loro paure e fragilità – che in fondo sono anche le nostre – ed essere certi che valga la pena investire energie, tempo e risorse perché possano crescere e trovare la loro strada.

Ogni volta che li accompagniamo, scommettiamo non sul risultato immediato, ma innanzitutto sul fatto che ci sono, che sono stati affidati a noi, che sono un bene per noi, scommettiamo sul loro valore che intravvediamo tra le macerie dietro cui si nascondono.
Scommettere non è un gesto solitario: è un atto collettivo. Richiede il coraggio della società, delle istituzioni, delle imprese, di noi adulti – genitori, educatori, formatori, docenti – che ogni giorno stiamo accanto ai ragazzi. E richiede anche che i giovani stessi imparino a scommettere su se stessi, a riconoscere il proprio valore.
In questo percorso, il lavoro diventa un grande alleato. Piazza dei Mestieri è nata vent’anni fa proprio da questa intuizione: attraverso il lavoro, i ragazzi imparano a rispondere alle richieste della realtà, a rispettare regole condivise, a scoprire la bellezza, trasformando un piccolo pezzo di mondo affidato alle loro mani – che sia un piatto ben preparato, una piega curata o un pezzo meccanico ben fatto.
Insegnare a lavorare vuol dire fare emergere il talento che è in ciascuno, ma il talento non si esprime se non si ha la percezione di essere un valore, se non si comincia o ricomincia a dire “io” e non lo si fa in un luogo inclusivo, con dei maestri che insegnano passione e competenze, sfidando la libertà.
Il convegno promosso da Famiglie per l’Accoglienza sarà l’occasione per ascoltare voci di adulti impegnati da anni nella formazione e nell’inserimento lavorativo (Carlo Carabelli e Paolo Ferrario, oltre la sottoscritta) e testimonianze di giovani che hanno vissuto in prima persona la sfida del lavoro e del cambiamento.
Sarà un momento prezioso per approfondire le condizioni che rendono il lavoro realmente educativo per i giovani di oggi. Nulla può essere dato per scontato: quello che valeva per le nostre generazioni non vale più automaticamente oggi. Basti pensare a fenomeni come la Great Resignation o alla difficoltà di diversi settori nel trovare personale.
Innanzitutto è necessario che l’incontro con la realtà di un lavoro avvenga in un luogo “umano”, in una realtà socialmente identificabile e attiva; nel grande deserto di oggi non si può prescindere da questa preoccupazione.
Ma soprattutto sono necessari degli adulti, dei maestri che possano sfidarli e accompagnarli a scoprire il loro valore, a riconoscerlo e a essere disponibili a svilupparlo.
Allora, la vera domanda non è se i ragazzi ce la faranno, ma se noi adulti – come singoli e come comunità – sapremo stare dentro questa scommessa insieme a loro. Se anche per noi il lavoro sarà davvero occasione di scoperta della realtà e costruzione di futuro con “mattoni nuovi”.
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