Per cercare di esprimere un giudizio sensato sulla foto di Maria Murphy di GB News ripresa da Repubblica, che mostra una ragazza – forse una studentessa delle superiori – seduta a prendere il sole su un binario nell’ex campo di concentramento di Birkenau, mentre un compagno la inquadra sulla sfondo dell’entrata al campo e una compagna fa esercizi di equilibrismo sull’altro binario, non basta stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo.
Bisogna, invece, partire dall’esperienza quotidiana, quella accumulata sui banchi di scuola lontani – e non solo fisicamente – mille miglia dall’orrore della Shoah. È un esercizio molto semplice che può fare chiunque abbia ormai i capelli bianchi o ci sia vicino. Basta togliere da quel vecchio armadio che sta in soffitta un testo di storia degli anni Cinquanta-Settanta (non osiamo andare più indietro) che non abbiamo mai osato gettare nella raccolta differenziata della carta o, peggio, utilizzare per accendere il camino. Mettiamolo accanto ad un testo di storia dei nostri giorni o di qualche anno fa, chiesto in prestito al nipote ormai laureato o a quello che frequenta una classe qualsiasi delle scuole dell’obbligo.
La differenza tra i due, indipendentemente dalla casa editrice, è abissale. Da lato pagine e pagine in carattere minuto, rade immagini in bianco e nero o in un brutto colore poco affine all’originale, un periodare lungo, ma preciso e arricchito da termini specifici per i quali occorreva spesso andarne a cercare il significato sul vocabolario (quello, per intenderci, alto una spanna e fatto anch’esso di carta): quasi mai ne veniva riportato il significato a fianco, perché l’allievo fosse spronato a cercarlo, appunto, sul vocabolario, in un esercizio che non era soltanto di ricerca fine a se stessa, ma di comprensione del testo che, proprio in quanto frutto di una fatica ulteriore, aveva maggiori possibilità di rimanere in testa. Di riassunti a fine capitolo neanche a parlare, sostituiti da esercizi di comprensione, approfondimento, ripasso per i quali non erano previste risposte chiuse, con le crocette che se messe a caso ed hai fortuna ti fanno guadagnare un bel voto.
Il secondo testo sembra appartenere a tutt’altra disciplina. Anzitutto per il numero ridotto di pagine rispetto al primo e poi per i caratteri cubitali di un discorso semplificato al massimo, non di rado privo di agganci logici tra un passaggio e l’altro, affiancato da una quantità di immagini capaci di occupare almeno almeno lo stesso spazio. Qualche rara parola “difficile” è subito specificata a lato, il riassunto conclusivo è proposto in maniera così allettante da indurre a volte lo stesso docente a proporlo in alternativa, così da recuperare tempo e da sperare che i concetti possano essere compresi anche dagli studenti meno interessati. Della storia come concatenarsi di cause ed effetti, poche, rare tracce.
Un lungo discorso, lo convengo, ma necessario a capire un concetto semplice: studiare storia è diventato superfluo anche a scuola. L’educazione – si fa per dire – privilegia ormai da decenni l’immagine “perché ormai i giovani vivono di questo grazie alla tv” (ricordo bene il boom di tale idea bislacca già nei primi anni Settanta), del resto irrobustita poi dall’arrivo in massa di telefonini, tablet e pc; ma, ancora di più, a fare da spartiacque è la cultura in cui siamo immersi e che non bada più al tempo futuro, ma a quello presente (una canzone, per esempio, dura lo spazio di qualche mese e poi viene spodestata da un’altra e così via), per cui contano l’oggi, il momento, l’istante da godere come un gelato che si scioglie in fretta o come nel famoso “carpe diem” che però, in principio, aveva tutt’altro significato.
La conseguenza è che non solo vale poco il domani (del resto, “di doman non c’è certezza” scriveva già a fine Quattrocento Lorenzo de’ Medici), ma vale niente ciò che chiamiamo ieri. La storia, la memoria, il passato o chiamatelo come volete è roba da ferri vecchi. Conta l’immagine: nella musica, nell’arte in genere, nelle canzoni da quattro soldi, nella moda e così via.
In una società fatta così, cosa volete che importi ad un ragazzo distinguere una rotaia alla stazione Bovisa di Milano, dove la vita scorre veloce ogni giorno, da quella di un campo di concentramento dove invece s’è fermata per milioni di persone, oltre tutto ottant’anni fa? Si ricorda spesso (ecco, è un vizio di chi ha la mia età quello di ricordare) la frase attribuita a Primo Levi (reduce da Auschwitz) “Coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a ripeterlo”, cui nello scorso gennaio ha fatto da naturale proseguimento quella di Liliana Segre: “Tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga tra i libri di storia e poi neanche quella”.
Vede bene, la “senatrice per meriti di vita”, come da tempo si sia plasmata con la mentalità corrente, dentro e fuori la scuola, una sorta di noia verso l’olocausto assurto come “male dei mali”, come un passato che dà fastidio e che, proprio perché passato e fastidioso, è comodo dimenticare.
Ricordate la commedia Napoli milionaria con la celebre frase “ha da passà ’a nuttata”? Eduardo De Filippo lo aveva già intuito allora con il protagonista che, tornato dalla guerra, veniva zittito dai suoi stessi coetanei che alla guerra non c’erano andati e così Giovanni Guareschi, anch’egli reduce dalla prigionia nazista, quando davanti ad un’Italia litigiosa e supponente scriveva che “si viveva meglio prigionieri nelle baracche”. Un’iperbole, certo, ma utile a capire quanto sia privo di senso gridare “al lupo, al lupo” davanti alle immagini dei turisti da spiaggia scattate nei campi dell’orrore nazista. C’è una retorica della Shoah e della lotta partigiana (ne stiamo per subire l’ennesima ondata con il prossimo 25 aprile), come di tante altre pagine più o meno oscure del nostro Paese, che è giunta l’ora di cancellare non per bieco revisionismo – il male rimane male sempre –, ma per amore della verità che non ha colore. L’alternativa è scambiare i binari di Birkenau per la spiaggia di Rimini e allora ci attendono tempi molto, molto duri.
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