In Canton Ticino sempre di più docenti sono scettici sulla possibilità di realizzare la scuola inclusiva. C'è una diversità che va rispettata
La scuola inclusiva è ritenuta, sia nel Canton Ticino, sia in Italia, una conquista che ha favorito un miglior sviluppo sociale, affettivo e culturale degli allievi con disabilità, ma anche degli allievi “normali” e degli allievi ad alto potenziale cognitivo, i cosiddetti “superdotati”.
Eppure, il modello di scuola inclusiva fa discutere: in altri cantoni svizzeri, dove vige un sistema a tre vie, secondo diversi gradi di abilità (nota bene: non soltanto di disabilità), si vorrebbero distinzioni ancora più rigide; nel Canton Ticino, che ha una scuola inclusiva e di qualità, pur conservando per una piccola percentuale di allievi scuole “speciali”, si stanno levando voci critiche o che per lo meno vorrebbero uscire da un’autocelebrazione del sistema per guardare con coraggio alle problematiche educative e scolastiche che lo stesso sistema inclusivo contribuisce a far emergere. Anzitutto a una certa frustrazione degli insegnanti, che in una prospettiva individualizzante dell’insegnamento si trovano nell’impossibilità di seguire tutti gli allievi in modo adeguato.
Sul tema dell’inclusione è tornato recentemente anche Dario Ianes, una figura di spicco nel panorama pedagogico non solo italiano, che in un’intervista al Riformista si è detto molto preoccupato perché un numero crescente di insegnanti ritiene che una vera inclusione non sia possibile.
Il grande argomento a favore dell’inclusione, ribadisce Ianes, è che l’inclusione conviene a tutti, se fatta bene. Riporto le sue parole: “Se noi organizziamo una didattica cooperativa, laboratoriale, articolando il lavoro e differenziando i livelli, anche gli studenti più capaci saranno valorizzati in questa prospettiva, mentre il ragazzo con disabilità svolgerà compiti semplificati con un progetto su misura per lui”. Inoltre, anche per gli allievi con disabilità gravi, una presenza, seppur limitata in classe, favorisce l’appartenenza al gruppo.
Sono aspettative auspicabili e condivisibili. I risultati si possono ancora migliorare, ma sembra emergere, anzitutto proprio tra gli insegnanti, la percezione che l’obiettivo non sia pienamente realizzabile.
La carenza di risorse a sostegno di insegnanti e allievi è certamente una causa del disagio e delle perplessità di molti insegnanti; tuttavia, credo che ci si stia rendendo conto che per educare e accompagnare nel percorso scolastico gli allievi non bastino “attrezzature” pedagogico-didattiche e organizzative. Un certo pedagogismo ha posto grande enfasi su una scuola inclusiva sempre più focalizzata sull’eliminazione degli “svantaggi”: cognitivi, sociali, linguistici, culturale ed emotivi. In un documento ufficiale del Dipartimento dell’educazione del Canton Ticino, già citato in un mio precedente articolo, si legge che la scuola dovrà includere anche allievi con “caratteristiche non definibili (…) derivanti da una difficoltà di funzionamento o da uno svantaggio”. Il rischio di cadere in un relativismo soggettivo è grande, con pericolose conseguenze per il soggetto stesso. Più che una scuola inclusiva si delinea una scuola fluida, assecondante, che si prefigge di eliminare ogni negatività, ogni resistenza e limite per garantire a tutti il perfetto funzionamento.
La sfida dell’inclusione mostra che non è possibile perseguire l’utopia di una scuola del benessere e del successo garantiti, come se questi fossero gli unici obiettivi di un percorso educativo; e, a maggior ragione, diventa evidente che non è realistico immaginare una scuola che renda indifferente il contraccolpo della realtà sugli allievi che la frequentano.
La scuola delle soft skills che assicura a ogni allievo una propria forma di eccellenza, la scuola in cui nessuno dovrà sentirsi diverso e perciò in cui viene svilita ogni alterità ha prodotto la grande illusione di poter controllare la realtà e di renderla fruibile a priori, a prescindere dall’esperienza. Genitori e allievi esprimono preoccupazione per i disagi che la scuola non sa risolvere e indirettamente può creare.
Ma sempre di più, mi sembra di poter dire che i veri disagi nascano dal disorientamento dell’io, dalla propria fragilità di fronte alla realtà. Non è la realtà anzitutto a essere messa in questione, ma la propria persona. La propria fragilità non è più riconosciuta e di conseguenza risulta difficile accettare anche una relazione educativa. Diceva Luigi Giussani: la soluzione dei problemi che la vita pone ogni giorno “non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta” (in A. Savorana, Vita di don Giussani).
Cito una situazione estrema. Anche se i dati non sono facili da interpretare, sappiamo che sono in aumento ragazzi e ragazze che, con grande sofferenza, a scuola non riescono più ad andare, bloccati nel loro mondo da paure difficilmente interpretabili e che loro stessi non imputano a carenze della scuola. In Ticino il loro numero è più che quintuplicato in cinque anni. Ho saputo di una ragazza che se ne sta da due anni per lo più in casa, senza amici, legge manga, i fumetti giapponesi. Forse si sente protetta in un mondo di fantasia in cui trova rifugio. Vorrebbe mantenere un contatto con ciò che si insegna a scuola cercando sporadicamente di risolvere qualche problema di matematica. E lo fa interagendo con l’intelligenza artificiale. Manga, IA, problem solving: sembra la combinazione perfetta per costruirsi un proprio mondo. Queste situazioni sono forse ancora rare, ma certamente allarmanti. È evidente che non basta parlare di inclusione.
Se le grandi domande su sé stessi non sono intercettate in un ambito educativo come la scuola, in cui i giovani passano gran parte del loro tempo, la scuola non risponde al vero bisogno dei ragazzi che la frequentano. La scuola inclusiva deve promuovere il senso di comunità, ma con realismo. L’inclusione totale non è possibile e nuoce all’educazione: travisa la realtà e distoglie l’io da sé stesso. Una sana inclusione ha un grande compito: quello di promuovere le relazioni tra persone diverse, ognuna con la propria storia, con le proprie caratteristiche e con la stessa domanda di felicità nel cuore.
Penso che l’educazione scolastica abbia trascurato proprio questo aspetto. Ogni allievo ha diritto di ricevere un insegnamento conforme alle sue caratteristiche individuali. Ma ha bisogno anche e soprattutto di essere accompagnato da educatori che sappiano testimoniare la passione per la realtà e per la ricerca del senso delle cose e di sé che è la ragione del vivere; una realtà non assimilabile nel suo stato di alterità, e perciò, potremmo dire, non inclusiva, una realtà che non è riducibile alla nostra ineliminabile fragilità umana.
In modo stupendo il filosofo Miguel Benasayag conclude il suo libro, dal titolo emblematico, Funzionare o esistere? con questo appello: “Noi, le donne e gli uomini per i quali i corpi sono pesanti, desideranti, sottomessi a pulsioni, noi che abbiamo l’intuizione che esistere non sia funzionare, non dobbiamo cedere a quella paura che ci invita a entrare in gabbia per la nostra maggiore felicità”.
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