Da tempo nel mondo della scuola si dibatte sulle caratteristiche richieste al docente per favorire l’apprendimento degli studenti. Si potrebbe, sinteticamente e con una certa approssimazione, affermare che sono principalmente due le concezioni che nel tempo si sono fatte strada.
La prima, che risale a tempi più lontani, vede nell’insegnante il maestro: con la sua guida lo studente è introdotto nel mondo della conoscenza e della tradizione. La seconda, più recente, è la visione del docente come facilitatore.
Si tratta di due prospettive che rispondono, in un orizzonte più ampio, a un differente modo di concepire il rapporto tra le generazioni: l’adulto che, in nome della sua esperienza, guida e accompagna il ragazzo nel cammino della vita, o il compagno, più in là negli anni, che si accosta al giovane nei sentieri della vita e della conoscenza.
Senza avere la pretesa di sanare questi apparenti o reali atteggiamenti antitetici, potrebbe essere utile domandarsi che cosa è essenziale all’essere educatori.
Una possibile e convincente risposta è rintracciabile nella messa a fuoco delle due irriducibilità di cui si fa cenno in un recente libro, Ansia e idolatria, curato tra gli altri dallo psichiatra Cesare Maria Cornaggia.
“L’uomo è definito da due irriducibilità. La prima è che la realtà è data, non la costruiamo noi, poi vi è un irriducibile che è dentro di noi e che possiamo chiamare desiderio, cioè quella domanda, quel seme gettato dentro di noi, quella esigenza originale (ontologica) che sentiamo dentro, quella spinta che ci porta a una ricerca costante di senso, quella domanda aperta che speriamo continuamente di avere” (p. 116).
Sarebbe dunque utile domandarsi quanto il cammino della conoscenza e la relazione educativa siano orientate da queste due irriducibilità o rispondano invece ad altre urgenze e suggestioni.
Spesso sembra che le azioni degli adulti, anche nella scuola, siano improntate al controllo e alla performance e di riflesso che i giovani vivano tra il disinteresse e l’ansia. Il controllo si esplicita nella continua moltiplicazione delle regole, di cui sfugge però il senso, o in un eccesso di parole e di discorsi che scivolano, senza lasciar alcun segno, sulla vita dei giovani.
La relazione educativa ripone la sua significatività su un altro piano della realtà: non è innanzitutto un fare o un parlare, è una dimensione dell’essere e dell’esserci. Lo ricordava Pier Paolo Pasolini: “Se qualcuno ti avesse educato non potrebbe averlo fatto che col suo essere non col suo parlare” (Lettere Luterane). Lo affermava un grande educatore, don Luigi Giussani: “L’educazione è una comunicazione di sé, cioè del proprio modo di rapportarsi con il reale” (Il rischio educativo).
Un’educazione e un’istruzione che non vogliano ridursi ad adattamento o a accademismo, ma che intendano mantenere il loro legame con la dimensione dell’essere, non possono dunque esimersi dall’impatto con le due irriducibilità di cui si diceva sopra.
La generatività, che è l’opposto del controllo, cresce nella stima del desiderio come apertura all’eccedenza dell’Essere e nell’impatto continuo con la realtà. In questo dinamismo sta tutto il fascino della conoscenza. Il contraccolpo con il reale rende curiosi, restituisce il fascino di un mondo capace di non esaurire mai il desiderio dell’oltre che caratterizza la natura umana.
Lo ricordava con una sintesi mirabile Shakespeare nel suo Amleto: “Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Solo questa tensione continua salva dall’aridità dell’accademismo e consente l’emergere delle diverse singolarità.
L’educazione non è dunque una teoria, ma un’esperienza, un appello alla libertà, come ricorda don Giussani: “Cosa vuol dire fare esperienza? Prendere contatto con la realtà in modo tale che essa diventa visibile, sensibile … conoscibile. … Non c’è esperienza se non produce crescita dell’io. La crescita dell’io è nel fatto che la realtà provoca, chiama l’io, facendo insorgere un problema … nel cercare di rispondere a questo problema, conosci la realtà e conosci sempre di più la tua capacità di fronte a esso, cioè cresce il sentimento di te, la coscienza di te stesso”.
Il docente e l’educatore sono chiamati ad essere tramite di questa possibilità. Per questo gli adulti sono innanzitutto dei testimoni, non nel senso limitato e un po’ moralista del dare il buon esempio, ma come attestatori di una modalità di conoscenza adeguata della realtà e quindi di comunicazione della verità.
La testimonianza dell’adulto in qualsiasi agenzia formativa, dalla famiglia alla scuola, è caratterizzata dal fascino per il reale, unica risorsa possibile per coinvolgere la libertà di un giovane che voglia cominciare il cammino per diventare adulto.
La relazione educativa è contrassegnata da una asimmetricità, che non è semplicemente di natura anagrafica, ma anche di qualità e di intensità di esperienza, capace di un’accoglienza senza biasimo, di riconoscimento, preoccupata di dire innanzitutto dei “sì”, come ricorda Cornaggia nel libro citato. “Cos’ hai provato quando hai conosciuto mamma? Voglio dire come hai capito che eri innamorato? Carlo rifletté per qualche istante. ‘Credo di aver sentito… di essere a casa. Di poter mostrare il mio lato più fragile, sapendo che l’altra persona lo capisce, lo accetta, se ne prenderà cura, e non lo userà mai contro di te’”.
Ai giovani manca spesso proprio questa possibilità di sentirsi a casa, di cui parla Francesca Giannone nel suo successo editoriale La portalettere. Manca ai ragazzi forse perché è innanzitutto il mondo adulto a non farne esperienza e quindi a non sapersene poi fare da tramite.
Liberarsi dal mito del controllo e acquisire, al contrario, una flessibilità capace di non assolutizzare le difficoltà, le fatiche o gli insuccessi, è uno dei compiti propri dell’educatore ed è la condizione per aiutare la generazione di soggetti liberi e creativi.
Come scrive Pennac nel suo Diario di scuola: “‘Con questo non ci riuscirò mai’. Nessun professore è esente da questo genere di fallimenti. Ne conservo cicatrici profonde. Sono i miei fantasmi familiari, i volti fluttuanti degli studenti che non sono stato capace di tirar fuori dal loro ci, e che mi hanno rinchiuso nel mio. (p. 143).
La fragilità dei nostri ragazzi, dei nostri studenti non ha bisogno di discorsi, ma di testimonianza di adulti che non trascurano il confronto con le due irriducibilità: la realtà che ci è data e il desiderio che alberga in ogni cuore umano.
Sono quotidiani gli episodi che documentano la sofferenza dei giovani, un disagio profondo che assume il volto del disimpegno, della depressione, del ritiro sociale, della violenza, del bullismo e di altro ancora. Come intervenire? Che cosa fare?
Più che fare occorre essere e esserci, ce lo ricordano due recenti opere di narrativa.
“‘E quindi: ecco perché non riesce più a parlare con suo figlio. Perché suo figlio ritiene che lei non abbia nulla di davvero utile da dargli. E forse, in fondo, mi creda, la parte più difficile del mestiere di genitore è proprio questa’. ‘Non servire a niente?’ ‘Amare chi non si fida più di noi’” (Matteo Bussola, La neve in fondo al mare, pp. 47-48).
“Era da quando provava a camminare, e poi ad andare in bicicletta, che suo padre le permetteva di cadere e l’aiutava a rialzarsi. La strada si era fatta tranquilla. Le persone erano tornate negli uffici. Si passò una mano sulla fronte, era sudata, ma fresca. ‘Non ti ho mai ringraziato.’ Riccardo si mise a ridere: ‘Non si ringraziano i genitori’” (Silvia Avallone, Cuore nero, pp. 299-300)
Uscire dalla logica del controllo non è favorire un accudente maternage, quanto farsi carico di una progressiva conquista del divenire adulti, accettando la sfida del continuo paragone con le due irriducibilità, imprescindibili risorse per generare conoscenza e libertà, unico baluardo contro l’ideologia.
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