L’uso indiscriminato dell’IA generativa da parte degli studenti ha attecchito nella scuola a causa di una cultura “performativa” che viene prima
Dell’intelligenza artificiale si fa un gran parlare. Sgombriamo il campo dagli equivoci: pressoché tutti gli strumenti costruiti dagli esseri umani sono stati ideati per evitare all’uomo la fatica. Nella storia abbiamo devoluto spesso parti della nostra facoltà cognitiva a strumenti tecnologici, ottenendo vantaggi materiali e brontolii dei conservatori e dei pedanti. Ma non ho memoria di una situazione in cui si sia devoluto così tanto potere e tanta soggezione a uno strumento così… limitante.
Non fraintendete: i suoi margini (ancora molto grandi, ora come ora) di errore verranno nel tempo limati sempre più. Quello che con ogni probabilità non cambierà è piuttosto la sua struttura. Si tratta di uno strumento nato più per assecondare l’utente, con un linguaggio neutro e rassicurante, che per dire il “vero” (concetto ridotto a un dato statistico e non più epistemico).
Ma il “problema IA” non sta tanto nello strumento in sé (come la fissione nucleare ha creato sia strumenti per produrre energia, sia le bombe atomiche), quanto nella società in cui viene calato. Qualsiasi intervento che sia semplicemente organizzativo e normativo sulla questione rischia seriamente di nascere già obsoleto: siamo solo alle prime battute di quella che con ogni probabilità sarà una vera e propria rivoluzione tecnologica, senza contare che la velocità di innovazione di anno in anno rende intrinsecamente difficile tenere il passo.
Il primo problema di cui si dovrebbe parlare, dunque, ancor prima della valutazione positiva o negativa dello strumento in sé, è un altro: la velocità. Educare è un po’ come produrre un buon vino: per avere un gusto corposo bisogna aspettare pazientemente. Peccato che la società, il mondo, dica altro: bisogna essere sempre performanti. E in fretta anche. È un discorso che trascende l’universo scolastico, ma che, a valanga, proprio su di esso manifesta i suoi più nefasti effetti. Bisogna fare tante attività, di corsa, senza fermarsi, riempire bulimicamente di “cose”, invece che di “senso”.

Alla fine, la società occidentale ce l’ha quasi fatta: ha reso moribonde la verità e la morale in nome di una vita alla continua e ossessiva ricerca della performance (e della sua visibilità). È un mondo di squali incapaci di smettere di nuotare, pena l’annegamento. E in un mare del genere, l’avvento delle IA generative non ha fatto altro che spingere ulteriormente il piede sull’acceleratore. Detto in parole semplici, il mondo dice alla scuola che deve generare individui in grado di produrre, sempre e comunque.
E, allo stesso tempo, la stessa scuola deve confrontarsi con un sistema in grado di fornire risposte semplici e pronte? Chiedete oggettivamente troppo a noi poveri insegnanti.
Davvero credete che in un mondo in cui “tutto cospira a tacere di noi” – parafrasando Rainer Maria Rilke – il corpo docenti italiano (o, in generale, quello di tutti i Paesi occidentali) abbia i giusti anticorpi per impedire agli adolescenti l’abuso delle IA generative ed “educare al pensiero critico”?
“Prof, le materie umanistiche saranno pure belle, ma sono inutili. Se ti fermi troppo a ragionare su robe assurde finisce che non fatturi e vai a vendere i panini”. Come si vince la sfida di un uso consapevole dell’intelligenza artificiale se la domanda con cui mi devo confrontare tutti giorni è più o meno questa?
Spesso ci troviamo di fronte a generazioni fragili, ansiose, costrette a correre, ma senza sapere perché e senza potersi fermare per pensarci. Non è poi così sorprendente che finiscano per avere la capacità di attenzione di un pesce rosso, il cinismo disilluso di un ottantenne che guarda i cantieri, il perenne desiderio spasmodico e drogato di stimoli endorfinici o adrenalinici per “stare” (non dico nemmeno “stare bene”) e – ecco appunto il lupus in fabula – una bassissima capacità di ragionamento autonomo.
Ma, forse, le si vuole proprio così?
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