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Home » Educazione » Storie ed esperienze » SCUOLA/ L’Interrail e il realismo di Pupi Avati erano meglio del cloud…

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SCUOLA/ L’Interrail e il realismo di Pupi Avati erano meglio del cloud…

Finito l'esame di Stato, la generazione dei 40-50enni era solita partire per il viaggio della maturità. Un'esperienza di vita. E adesso?

Marco Ricucci
Pubblicato 10 Agosto 2022
(LaPresse)

(LaPresse)

Archiviato l’orale della maturità, la generazione dei quarantenni e cinquantenni era solita partire per il viaggio della maturità: la meta più ambita era la “mitica” Grecia, dove ognuno dei neodiplomati ripercorreva una miniaturizzata odissea, nel format esistenzial-post-adolescenziale. Insomma, un po’ come viene rievocato nel film uscito nel 2004 di Giovanni Veronesi Che ne sarà di noi?, una commedia scanzonata e divertente in cui un giovanissimo Silvio Muccino non era ancora andato a scuola di dizione per eliminare il suo suono sibilante.


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Ma le ragazze e i ragazzi di oggi sembrano non perpetuare più questo rito di passaggio: un’iniziazione al viaggio come ricerca della propria personale “Itaca” rievocata nell’omonima poesia di Kavafis, poiché viaggiare per i giovanissimi di oggi è divenuto così facile sul web, con gli aere e i treni che la commutatio loci ha perso tutta la sua forza filosofica prorompente nelle sferzate senecane per la descrizione dell’anima umana.


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Nel film menzionato tre amici di Roma, dopo aver finito la maturità, partono insieme per Santorini, che diventa una sorta di castello dei destini incrociati di calviniana narrazione: ognuno di loro si trova alle prese con “problemi” esistenziali da affrontare. Matteo combatte in una relazione altalenante con Carmen, più grande di lui, capricciosa, imbronciata, che si prende gioco di lui come un baby–toy-boy preso dall’amore cieco per lei. Paolo è invece il classico bravo ragazzo, il secchione, impacciato e posato che mamma e papà vogliono iscritto alla facoltà di economia a Milano. Manuel incarna, invece, lo stereotipo dell’anticonformista, ribelle e insoddisfatto di stare al mondo, nel tran-tran quotidiano, prima che la società ci ingabbi, anzi prima che la forma ci inchiodi nel nostro divenire vitale, secondo la teoria esposta nel saggio L’umorismo di Luigi Pirandello: l’idea di finire a lavorare con la madre vedova nel negozio di animali, al ritorno, lo inorridisce.


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Il viaggio della maturità era, dunque, fino a una certa generazione, un must che caratterizzava il ricambio generazionale in un mondo che non era ancora globalizzato, iperconnesso, cablato da un’impercettibile rete: quando le low cost stavano ancora prendendo il volo, l’Interrail era ancora il modo più giovanile ed economico per spostarsi in Europa.

Su studenti.it si leggeva: “Sappiatelo: dopo la Maturità 2022 trascorrerete un’estate indimenticabile, anche perché sarà l’ultima in cui non avrete un lavoro o una sessione estiva all’università. Insomma, è bene festeggiare la fine dell’esame di Stato, l’addio a interrogazioni e compiti in classe. Il viaggio della Maturità, che negli ultimi due anni ha cambiato pelle a causa della pandemia, è una specie di rito di passaggio per ogni maturando e, anche se si deve tenere conto delle restrizioni, è una tappa irrinunciabile per tutti gli studenti”. Sarà veramente così, ancora un rito di passaggio?

Nel film, lungo il viaggio, i nostri tre eroi incontrano Bea e Monica, due ragazze attraenti e scafate; Valentina, una ragazza tutta acqua e sapone, differente dalle altre, soprannominata “Cicalina” e segretamente innamorata di Matteo; e Sandro, un “tamarro” di famiglia abbiente stereotipato che ha stregato Carmen. Il vulcano spento di Santorini esplode della lava incandescente fatta di sogni, passioni, paure, emozioni, libertà: queste ragazze e questi ragazzi, che hanno appena terminato il percorso scolastico, culminato nell’esame di Stato, prenderanno consapevolezza delle proprie inclinazioni fino a “condursi” a compiere il fatidico passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta. Siamo lontani eppure in un certo senso così affini a un film di Pupi Avati, Una gita scolastica (1983), in cui Laura, un’anziana signora di ottant’anni, richiama alla sua memoria il più bel ricordo della sua vita: una gita scolastica, nel 1914, a piedi da Bologna a Firenze, attraverso gli Appennini, poco prima che si svolga l’esame di maturità (e scoppi la Prima guerra mondiale). Si tratta di una classe mista di trenta alunni, accompagnata dal professore di italiano e dalla professoressa di disegno. Al ritorno da quella gita, come se fossimo stati a Santorini, prima di prendere il treno che li riporterà a casa, il prof. Balla, docente di italiano, applicando il regolamento, fa l’appello (altro rito della nostra memoria scolastica), e Laura fa una riflessione per se stessa: “Eravamo tornati: sapevamo che l’incanto di quella gita ci avrebbe abbandonato per sempre”.

A settembre, quando (r)incomincia la scuola, se mi capita una prima, li guardo intensamente, prima che incominci – almeno dove insegno io – una sorta di auto.selezione di chi poi decide di cambiare e andare via. Dalla cattedra vedo tanti volti di ragazze e ragazzi appena usciti, che ancora “tendono la pargoletta” mano alla vita, per certi aspetti, pieni di un “incanto” dell’ultima estate senza compiti e senza il rischio dei debiti… Incominciano così il loro viaggio nella scuola, che sempre di più, nella varie riforme, si è spalancata al mondo esterno: progetti, corsi, conferenze, stage, alternanza, Invalsi, esperti, e così via… Negli anni passati, la scuola era più autoreferenziale, centrata sul rapporto cattedratico docente-alunno. Allora, prima di essere in balia dell’anno scolastico, prima che le vacanze di ognuno di noi siano solo una lontana eco da archiviare in foto digitali nel cloud, faccio un gioco psicologico e mi chiedo, guardando una delle tante classi che ho davanti: che ne sarà di loro?

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