Prima Voltaire e poi Dostoevskij amavano ripetere che il grado di civiltà di un Paese si misura dal livello delle sue carceri. Se il problema del sistema rieducativo delle carceri italiane è ritornato alla ribalta dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere, oggi bisognerebbe indicare negli standard valutativi di una nazione anche il suo sistema scolastico: l’Italia di certo ne uscirebbe con le ossa rotte.
Come test della qualità del nostro sistema educativo oggi vengono utilizzate le prove Invalsi, considerate un metro di giudizio affidabile per misurare lo stato di salute della nostra scuola, e ciò che emerge dall’ultima indagine dell’istituto è un quadro tutt’altro che confortante.
Sono dati che giova richiamare. Partendo dall’ultimo anno delle scuole secondarie di primo grado, le prove Invalsi hanno registrato un 39% degli studenti privo dei requisiti minimi di conoscenze di base in italiano, e la percentuale sale al 44% per quanto riguarda la matematica, in confronto al 34 e al 40% rilevati nel 2019. Scorporando i dati su base regionale, si evince che non si è realizzato un ulteriore aumento del divario di competenze tra Nord e Sud Italia, ma un peggioramento generalizzato più forte al Centro-Nord: il 48% degli studenti di terza media del Mezzogiorno non ha sviluppato competenze in italiano, ma nel 2019 era il 46%, mentre al Nord-Ovest si è passati dal 30% del 2019 al 36% dell’ultimo anno scolastico, al Nord-Est dal 28 al 33%, al Centro dal 32 al 36%. Stesso aumento percentuale riguarda le insufficienze in matematica, anche se sono storicamente più alte in tutto il territorio nazionale.
Numeri più preoccupanti riguardano le inadempienze della scuola superiore. L’abbassamento del livello minimo di competenze in italiano e matematica si è manifestato in media intorno ai 9 punti percentuali, ma il dato più preoccupante riguarda il peggioramento delle basi matematiche degli studenti delle scuole superiori del Mezzogiorno continentale, che raggiunge il 70% nel 2021 contro il 66% del 2019. Al Sud, inoltre, è aumentato il tasso di abbandono scolastico, raggiungendo nell’ultimo anno il 14,8%, sul quale pesa soprattutto la condizione sociale di partenza degli studenti, in quanto nei ceti benestanti la dispersione si ferma al 5%.
Alla luce dei dati del rapporto Invalsi 2021 il Corriere della Sera e altre testate giornalistiche nazionali hanno parlato di tonfo della Dad e del ritorno di un analfabetismo funzionale tale da ridurre gli studenti maturandi alle competenze da terza media. In più, diversi organi d’informazione hanno sottolineato che le due regioni che hanno fatto registrare il trend negativo più forte, Campania e Puglia, sono le stesse che hanno usufruito della didattica a distanza per un tempo maggiore, chiudendo le scuole di ogni ordine e grado per problemi pandemici.
Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli insegnanti, ha rimarcato con forza l’influenza negativa della Dad sui dati registrati tramite l’Invalsi, parlando di “surrogato di scuola dannoso se applicato sul lungo periodo”, e chiedendo, a ragione, interventi più cospicui da parte del governo su di un piano di costruzione di nuove strutture, in modo da ridurre il numero di alunni per classe.
Pochi, invece, si sono soffermati sull’eccezione della scuola primaria. Le prove Invalsi alle primarie riguardano gli alunni della seconda e della quinta classe, per un totale di circa un milione di studenti, e nel 2021 hanno fatto registrare sostanzialmente risultati simili al periodo pre-pandemico. I livelli minimi di apprendimento nelle materie principali sono stazionari, mentre è aumentata leggermente anche la percentuale degli alunni che riescono a maturare conoscenze superiori nelle stesse. In continuità con le percentuali delle scuole secondarie, purtroppo, risulta essere ancora il grado di apprendimento differenziato su base macro-regionale, con il Mezzogiorno indietro rispetto al resto del Paese. Nel Sud, però, la primaria ha retto il confronto con il 2019 anche nelle regioni più “chiuse” nel periodo pandemico dal punto di vista scolastico, nonostante l’applicazione temporale maggiore della Dad.
Non è da escludere che il sistema di didattica a distanza abbia influito negativamente sul rendimento degli studenti negli ultimi due anni scolastici, ma probabilmente le radici di questo malessere della nostra scuola sono più profonde e più antiche rispetto ai problemi causati dal Covid-19. Innanzitutto bisogna considerare che l’applicazione di metodi digitali innovativi così integrali all’interno del contesto dell’istruzione scolastica necessiterebbe di un tempo fisiologico di adeguamento, sia strutturale che culturale, come in ogni epoca storica l’uomo ha avuto bisogno di tempo per recepire tutti i portati delle transizioni tecnologiche susseguitesi, dal paleolitico alle rivoluzioni industriali. Per tale ragione, il mondo della scuola non dovrebbe trincerarsi dietro un rifiuto quasi luddistico della nuova tecnologia, ma analizzare nuovi paradigmi pedagogici che potrebbero facilitare anche la formazione dei cittadini-lavoratori del domani, in un contesto internazionale sempre più legato alla digitalizzazione e all’Industria 4.0.
Non sorprende, tuttavia, la scarsa propensione all’adeguamento ai nuovi paradigmi tecnologici da parte del corpo docente delle scuole medie: l’età media degli insegnanti italiani è la più alta d’Europa, 51 anni, a causa dei periodi ricorrenti di blocco di assunzioni e, di conseguenza, per un tasso inferiore di ricambio generazionale. L’eccezione delle scuole primarie, stazionarie per i valori espressi con i test Invalsi, conferma la regola. Nelle scuole primarie negli ultimi dieci anni è avvenuto un maggiore cambio generazionale, principalmente dovuto al percorso formativo universitario differente rispetto al personale insegnante negli altri gradi d’istruzione. Le lauree che consentono l’accesso all’insegnamento primario sono abilitanti, e ciò porta all’ingresso anticipato di giovani professionisti nel mondo del lavoro, che sono portatori di nuovi metodi pedagogici, in quanto il sistema di reclutamento permette di creare una continuità tra studio universitario e lavoro nelle scuole. Così, un personale insegnante più giovane porta a una migliore ricezione anche delle tecnologie innovative a supporto della scuola.
I problemi della nostra scuola non si esauriscono soltanto nell’individuazione delle difficoltà nell’apprendere le tecnologie della nuova era, nella crisi pandemica e nell’applicazione della Dad, ma esiste un filo conduttore che lega le inefficienze del sistema scolastico ai problemi economici del nostro Paese degli ultimi trent’anni.
Prendendo in considerazione le prove Invalsi svolte dalla loro introduzione fino a oggi, si nota che l’andamento negativo, a parte annate scolastiche fortunate, è stato costante nel tempo. Ciò denota, dunque, che il problema pandemico ha soltanto messo in mostra un fenomeno già esistente, che è iniziato soprattutto a partire dalla fine degli anni Ottanta. Con la fine del sistema economico misto, che prevedeva una collaborazione tra pubblico e privato nella crescita materiale e culturale del nostro Paese, è aumentato costantemente il tasso di disoccupazione, fino a raggiungere consistenze che l’Italia non conosceva dagli anni 50 del secolo scorso.
Oggi a farne le spese non sono soltanto cittadini con bassa specializzazione professionale, ovvero coloro che secondo le vecchie categorie sociali ingrossavano i ranghi del proletariato industriale e agricolo; con l’applicazione delle politiche neoliberiste, e con l’aumento del numero dei laureati nell’ultimo trentennio, la competizione è risultata più ostica per i giovani che sono riusciti a completare i cicli superiori di studio. La globalizzazione, la delocalizzazione industriale, la deregolamentazione progressiva del mercato del lavoro e le privatizzazioni hanno precarizzato il contesto lavorativo di coloro che conseguono un titolo universitario, tanto da trasformare la consistenza delle vecchie classi sociali di matrice ottocentesca: oggi giovani ricercatori, avvocati, ingegneri, insegnanti eccetera sono soggetti a una sorta di proletarizzazione 2.0: come ai proletari marxiani veniva riconosciuta soltanto la loro genitorialità sulla prole, ai giovani professionisti di oggi viene riconosciuta soltanto la proprietà dei propri talenti, che sono costretti a vendere al mercato del lavoro precarizzato per trarne i mezzi di sussistenza.
A fare le spese di questa nuova proletarizzazione di massa sono stati soprattutto i percorsi formativi umanistici. Il tasso di disoccupazione dei laureati in dipartimenti umanistici è di gran lunga superiore rispetto ai loro pari in materie tecniche: questo dislivello di apprezzamento anche in senso culturale fu descritto già da Pasolini negli anni 60, quando pronosticò le tendenze attuali della società del libero mercato, in cui i tecnici sono più apprezzati “per grazia produttiva e fede nel consumo, oltre che per rimuovere, insieme all’umanesimo, ogni scrupolo di coscienza”.
Soltanto avendo una piena consapevolezza delle nuove sfide create dal neoliberismo si possono elaborare delle misure volte a ridimensionare i problemi sorti all’interno del sistema scolastico. Il neoliberismo può essere considerato portatore di un principio di uguaglianza, ma non di equità, in quanto, in nome del libero mercato e della libera iniziativa che dovrebbero riequilibrare il mondo, non ammette l’esistenza di diversi livelli di partenza di ciascun individuo; al contrario, la scuola dovrebbe inaugurare un nuovo percorso fondato sul principio di equità, in modo da cambiare anche culturalmente l’approccio nei confronti dell’istruzione, che ha perso il suo fascino da quando il conseguimento di un titolo non dà la certezza di una giusta collocazione sul mercato del lavoro, né della stabilità professionale, che tradotta in termini materiali significa miglioramento della qualità della vita.
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