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Home » Educazione » SCUOLA/ Periferie (e prof più bravi) per rompere il patto tra burocrazia e sindacati

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SCUOLA/ Periferie (e prof più bravi) per rompere il patto tra burocrazia e sindacati

Non è possibile premiare i docenti secondo criteri burocratici: dovrebbero fare da guida le esperienze reali in zone "di frontiera"

Marco Ricucci
Pubblicato 13 Ottobre 2022
Scuola (LaPresse)

Scuola (LaPresse)

Che i docenti più “bravi” debbano andare nelle scuole più difficili e vadano pagati di più non mi sembra un’idea peregrina, se con onestà intellettuale e pragmatismo condito da buon senso si chiariscono sostanziali fraintendimenti.

Infatti, alla luce delle recenti innovazioni normative, il combinato tra la figura del docente stabilmente incentivato e il decreto sulla valorizzazione dei docenti al fine di incentivare la continuità didattica e la permanenza sulle sedi disagiate, è la configurazione astrale per intervenire, fattivamente, nelle zone di disagio e di dispersione, sempreché sia abbia la volontà di agire e di non chiacchierare.


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La domanda, dunque, da porsi non è la corbelleria con cui gran parte del corpo docente si crogiola: e chi sarebbe veramente il docente “bravo”? e chi dovrebbe stabilirlo? E come? Chi ha fatto il precario, come lo scrivente, sa che per la galassia formativa vale l’adagio riaggiornato all’uopo: scuola che vai usanza che trovi. Ogni scuola è un micromondo che riflette, in particolare per la scuola elementare e media, il territorio in cui si trova. Soprattutto nelle grandi città italiane, dove i divari e le disparità stanno aumentando sempre di più: le scuole, dunque, diventano sentinelle dello Stato e, a volte, presidio tangibile dello Stato per la vita quotidiana di milioni di cittadini, grandi e piccoli.


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Ci sono poi le narrazioni di particolari situazioni, che solo chi ha vissuto e vive in prima persona conosce: scriverne è un mezzo come era stato il caso di Verga, il quale, grazie ai suoi romanzi veristi, permise ai “nuovi” italiani di conoscere meglio il mondo ancestrale e mitico della Sicilia rurale di fine Ottocento. La letteratura è dunque anche esplorazione umana e sociale.
Per esempio, Eugenio Tipaldi, autore di saggi e partecipe al dibattito pubblico sul tema dell’istruzione, è preside dell’Istituto comprensivo “D’Aosta-Scura” di Napoli, che, come si legge sul sito della scuola, “è costituito attualmente da quattro plessi e insiste in un territorio eterogeneo… nel quartiere Montecalvario (i cosiddetti Quartieri Spagnoli) che, pur essendo in pieno centro urbano, vive una realtà di elevato disagio sociale, con alti tassi di disoccupazione o di occupazione precaria, fenomeni di microdelinquenza e criminalità organizzata. L’elevata e multietnica densità abitativa ha, inoltre, accentuato la marginalizzazione del quartiere. Questa complessa realtà concorre a generare in alcuni alunni e nelle loro famiglie un malessere affettivo, sociale e culturale che si riflette anche sulla vita scolastica con l’assunzione di comportamenti talvolta apatici e/o aggressivi”.


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Tipaldi è stato docente di lettere in una scuola “a rischio” che ha raccontato nel libro Diario scolastico (Roma 2003), mentre la sua esperienza attuale nel libro Il preside dei Quartieri Spagnoli (2018). Naturalmente, Tibaldi avrebbe ben da insegnare e formare i docenti da “mandare” al fronte, se mi si consente l’espressione ardita. Si tratta naturalmente di una situazione complessa ed “estrema”, al limite, ma proprio per questo esemplificativa: queste situazioni hanno bisogno, in maniera chiara, di docenti “bravi” perché formati specificatamente per questo tipo di realtà e complessità, ma vanno anche “valorizzati” con una adeguata retribuzione e non solo coi pochi spiccioli che saranno elemosinati per chi non fa domanda di mobilità per ritornarsene al suo paesello.
Infatti, uno dei più evidenti psicodrammi della classe docente italiana, ripetuto nel corso degli anni, è prendere il ruolo al Nord dove è maggiore il numero delle cattedre e il costo della vita, ma trovare il modo di scappare al Sud dove ci sono meno cattedre e il costo della vita è spesso inferiore, con uno stipendio statale che rimane identico sul territorio nazionale. Non solo ritornare a casa, anche in famiglia: gran parte del corpo docente è donna e spesso madre.

Ci vuole, perciò, un atto di coraggio e di onestà intellettuale, in un piano organizzativo di lungimiranza per l’asset strategico del sistema-Italia. Chi lavora in scuole in aree disagiate deve essere adeguatamente formato per meglio affrontare le situazione complessa e critica e deve essere pagato meglio e di più (stabilmente incentivato), garantendo una continuità a medio-lungo termine.
Questo, tuttavia, andrebbe a invadere il campo dei sindacati e a intaccare alcune prerogative del rapporto contrattuale tra Stato e corpo intermedio: insomma, verrebbe forse vissuta come una indebita ingerenza. In questo quadro, tuttavia, la formazione, per dare vera attuazione al comma 124 della legge Buona Scuola, essendo “obbligatoria, permanente e strutturale”, dovrebbe essere accuratamente pensata e pianificata ad hoc, nella collaborazione tra specialisti accademici, mondo del volontariato, scuole stesse, facendo spirito di squadra: in questa maniera, il docente diventerebbe “bravo” per situazioni complesse e critiche, in aree di disagio e periferia.

Il docente, dunque, non sarebbe un “missionario”, ma un professionista, che, alla fine di un periodo minimo di servizio usurante in scuole “difficili”, dovrebbe avere alcune agevolazioni contrattuali specifiche rispetto agli altri, rompendo, almeno per una volta per una buona causa, il tabù dell’egualitarismo della scuola scuola italiana.

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