La cultura neoliberale ha trasformato la scuola in un ente burocratizzato che eroga prestazioni. Occorre che l'educazione ridiventi un evento
Le riflessioni del professor Giorgio Chiosso sulla scuola, recentemente pubblicate sul Sussidiario, consentono di approfondire l’argomento in modo fruttuoso. Anche se la conclusione, ahimè, è che noi non abbiamo più idea di cosa farcene della scuola pubblica. C’è una frase che colpisce a questo proposito: “È purtroppo quasi scontato constatare che oggi siamo ben lontani da un ceto politico che davvero ha a cuore la dignità della scuola e spesso, anzi, la concepisce soltanto in funzione dell’assorbimento della disoccupazione intellettuale o, in altra direzione, in forme puramente custodiali”. L’elegante termine finale dice bene cos’è diventata ormai la scuola, soprattutto i segmenti dell’infanzia e della primaria, nella percezione pubblica della cosiddetta utenza (già questa parola la dice lunga): un gigantesco servizio di babysitteraggio di Stato.
Sempre più istituti scolastici si muovono per organizzare i propri orari tenendo conto delle esigenze dei genitori, più che quelle dei bambini: e le esigenze sono molto semplici, poiché ormai mamma e babbo (mi scuso per questo uso antiquato del linguaggio) lavorano entrambi, le scuole allungano gli orari, aumentano i servizi (pre e post scuola), trasformando gli insegnanti in custodi, per echeggiare la parola di Chiosso. Pochi se ne stanno accorgendo, ma dalle agende e dagli incontri collegiali sta sparendo la problematica della didattica. Il fatto di organizzare le ore per i ragazzi in base alle effettive esigenze di didattica (quante ore servono veramente per insegnare quella materia?) è qualcosa di cui non parla più nessuno.
Il paradosso è che, pur avendo generalmente più tempo e servizi, la didattica si va restringendo a una serie di botta e risposta, di stimoli e controstimoli, di prestazioni che si chiede di dare anche ai bambini più piccoli: primo, io ti insegno qualcosa; secondo, verifico che tu l’abbia imparato; terzo ti do il voto, qualsiasi cosa esso sia. È il grande paradigma dell’Invalsi non limitato alle rilevazioni, ma applicato alla vita scolastica di tutti i giorni.
Ma se per l’Invalsi può essere giustificato dalla necessità di avere uno strumento nazionale che monitori lo stato della scuola (anche se poi non si è mai capito cosa accada dopo che lo stato è stato monitorato; quali provvedimenti reali vegano presi in caso, ad esempio, di mancanze rilevate; a quanto pare nessuno), la trasformazione della scuola in una catena di prestazioni a cui i bambini sono chiamati sembra andare in controtendenza rispetto all’idea comune sulla scuola. Lo dice assai meglio ancora una volta Chiosso: “Prevalgono le procedure formalizzate (cognitive, sociali, comportamentali) rispetto ai processi basati sull’esercizio della libertà. È quanto sta accadendo da qualche decennio – dietro la spinta di ragioni economiche e produttive – in larga parte della cultura pedagogica contemporanea, debitrice della cultura anglosassone di matrice comportamentista e pragmatista”.
A conferma di questo apro una parentesi: le nuove, fumose proposte didattiche vengono nominate in questo modo: outdoor-education (lezione all’aperto), cooperative-learnig (imparare aiutandosi) e chi più ne ha più ne metta. Il legislatore che recentemente ha pensato di multare l’uso di termini stranieri potrebbe pensare di farsi un bel gruzzolo cominciando a indagare su come parlano i cervelloni del ministero dell’Istruzione e di Scienze della Formazione. Segnali anche questi di come la scuola sia investita da una marea di contraddizioni, il che ci porta alla tesi iniziale: non abbiamo idea di cosa farcene.
Lancio una provocazione: si provi a chiedere non solo agli insegnanti, ma anche ai dirigenti, d’istituto, in regione via via più su, quali sono davvero i programmi di insegnamento… Sarebbe divertente registrarne le risposte. Noi non ne abbiamo idea: ma insomma, che cosa i nostri ragazzi devono effettivamente imparare? E perché? Questo apre un altro grande tema, per parlare del quale occorrerà altro spazio.
Chiosso, ricordando la riforma Gentile di circa un secolo fa, così lo riassume: “Gentile era fermamente convinto che soltanto un popolo nutrito di una cultura radicata nella tradizione e non in balia dell’ultima moda – nel senso, dunque, di un sapere non fine a sé stesso ma trasferito e reinventato nella realtà quotidiana – era un popolo destinato a progredire, in grado di affrontare e risolvere i problemi, educato non solo a rivendicare diritti ma anche a onorare i doveri che la convivenza umana comporta. (…) La seconda riflessione che suggerisce la riforma di Gentile è la centralità attribuita alla formazione della coscienza personale. L’educazione, ieri come oggi, è un evento che si compie mediante quella che il ministro filosofo definiva ‘l’incontro di anime’. Non è un prodotto quantificabile e predeterminabile, è il senso dell’umano che trasmigra da chi ha più storie da narrare ed esperienze da proporre a chi sta crescendo, cercando la propria via”. Già, quali sono le narrazioni che la scuola di oggi vuole offrire ai nostri figli?
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