Che gli stipendi dei docenti italiani siano inferiori a quelli dei colleghi europei è noto. In più l’uniformità nazionale crea disparità aggiuntive
Non è necessario ricorrere al caso di Elena Maraga, 29 anni, laureata in scienze dell’educazione, profilo su OnlyFans. Per necessità, ha detto lei: “Lo stipendio da educatrice è insostenibile”. Risultato: perdita del lavoro e denunce. Ma tralasciamo la vicenda, che comunque ha avuto il merito di mettere alla ribalta dell’opinione pubblica, sempre in letargo, un dato strutturale e atavico della nostra scuola. Perché, in un Paese serio, un’educatrice non dovrebbe guadagnare meno di un rider?
I dati del rapporto OCSE “Education at a Glance 2024” sono impietosi. In Italia, uno stipendio medio per un docente è di 31.320 euro lordi all’anno (dati 2023). In Germania, si parte da 54.129 euro e si arriva fino a 85.589 euro. In Francia: da 26.839 a 50.424 euro, in Spagna da 30.992 a 49.307 euro. Il massimo per un insegnante italiano, dopo 35 anni di servizio, è di 40.597 euro. In pratica, un collega tedesco ne guadagna il doppio… all’inizio.
E se guardiamo al potere d’acquisto, il disastro continua: secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica, per garantire ai nostri insegnanti lo stesso tenore di vita dei colleghi europei, basterebbero 2,9 miliardi di euro in più all’anno (non 11,6, come per l’allineamento secco).
Intanto, si preferisce spendere soldi per altro, perché la scuola non è considerata un asset strategico per il futuro del sistema-Paese, che infatti è da anni in calo di natalità e “importa” lavoratori stranieri, già adulti, per il lavori che gli italiani non vogliono più fare, mentre quelli che hanno studiato in Italia scappano all’estero per stipendi più alti.
Milano, nel frattempo, rimane capitale dell’emergenza scolastica. Secondo dati CISL Scuola (fonte: ministero dell’Istruzione), entro il settembre 2025 lasceranno Milano e provincia 4.621 docenti (tra pensionamenti e trasferimenti). Di questi:
– 2.644 sono maestri, metà dei quali di sostegno;
– 373 all’infanzia, 612 alle medie, 992 alle superiori;
– 796 hanno chiesto il trasferimento altrove.
In totale, solo a Milano e provincia resteranno 5.596 cattedre scoperte. In Lombardia, oltre 13.000. Non è emergenza, è collasso.
E tutto questo mentre, secondo il ministero, la laurea in Scienze della formazione primaria abilita solo 5.000 nuovi maestri all’anno. In Lombardia ne servirebbero 2.500 subito.
È pensabile lo stesso stipendio a Milano e a Caltanissetta? Oppure c’è qualcosa che non funziona?
A Milano e nei comuni dell’hinterland un monolocale costa in media 1.000 euro al mese. A Ragusa meno della metà. È solo un esempio, magari impreciso, ma rende l’idea. Eppure, lo stipendio di un insegnante è identico in tutta Italia. Un’autentica follia, un’assurdità, che Parigi, Berlino, Madrid, Londra hanno superato da anni, introducendo indennità urbane legate al costo della vita.
In Italia? Nulla. E quando si propone un correttivo, parte subito la sirena: “È incostituzionale”, “I sindacati si oppongono!”. Peccato che a Trento lo facciano già, poiché provincia autonoma. In cambio di questa integrazione salariale, i docenti lavorano di più: di fatto è stato contrattualizzato, nero su banco, il lavoro sommerso che gli altri colleghi fanno lo stesso nel resto dello Stivale.
Il timore del governo? Toccare la scuola è pericoloso: fa perdere voti e infiamma i sindacati. Ma forse, per non turbare gli equilibri elettorali, si sta condannando un’intera generazione di studenti a un’istruzione senza insegnanti. Servirebbe una rivoluzione salariale e anche morale.
Il problema non è (solo) lo stipendio. È il messaggio che si manda: insegnare non vale nulla. Niente carriera, niente avanzamenti, niente valorizzazione. Solo precarietà, carichi amministrativi e uno stipendio tra i più bassi dell’area OCSE.
Nel 2025 sono previsti tre concorsi pubblici, anche straordinari, legati al PNRR. Bene. Ma i concorsi non bastano, se poi chi vince scappa da Milano dopo un anno, oppure non può permettersi l’affitto in città.
Bisognerebbe introdurre indennità legate al costo della vita nelle grandi città; rimodulare gli stipendi sulla base del Pil pro-capite regionale; incentivare il reclutamento con canali stabili e progressioni di carriera reali, magari nella aree più a rischio sociale; riconoscere il lavoro educativo come “infrastruttura” strategica, al pari del Ponte sullo Stretto.
L’alternativa? prepariamoci a un futuro di classi senza insegnanti motivati e preparati, ma solo col desiderio del posto fisso, pagati poco per fare poco. Con buona pace di tutti.
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