Fatto salvo il timore diffuso (se fondato o meno, vedremo) che si debbano presto richiudere, con quali aspettative il paese guarda alla riapertura delle scuole? La piega che ha preso il dibattito sul tema è deprimente. Per un verso si risolve nella bagarre sull’efficacia dei dispositivi e delle procedure anti-contagio, per l’altro nella polemica sulla cosiddetta Didattica a distanza (Dad).
Che cosa tiene insieme questi due versanti del discorso? Da una parte, sia che si lamentino ritardi insufficienze e confusione, sia che si rivendichi quanto messo in atto, si conviene sull’obiettivo: tutti devono rientrare a scuola, in sicurezza. Sulla Dad, il confronto è fra chi mal sopporta e chi demonizza, fra chi si rassegna e chi non si rassegna, nella comune convinzione che la “vera” istruzione si fa in classe: dunque, tutti devono rientrare a scuola, in presenza. In sintesi, tutti a scuola, in presenza e in sicurezza. Il rumorio verbale (chiamarlo dibattito ci vuol coraggio) degli ultimi mesi si riassume alla fine in un auspicio condiviso: “tornare alla normalità”.
Ma come? E il mantra globale del “niente sarà più come prima”? E gli inviti a sfruttare la crisi per un “grande balzo” in avanti, addirittura per un “nuovo modello di sviluppo”? Niente, “tornare” a come eravamo prima, riavvolgere il nastro. Non che non si possa, anzi è probabile che sarà così. Ma è un buon obiettivo? Siamo certi, per riformulare un titolo di Michel Serres, che c’était bien avant?
Al contrario, siamo tutti consapevoli che non andava – e non va – affatto bene. Non va bene sul doppio fronte dell’efficacia e dell’equità del sistema formativo nel suo complesso, non va bene per l’arretratezza e la disomogeneità delle infrastrutture, edilizie e di rete, non va bene sul piano della disparità territoriale, di servizi e di risultati, non va bene in termini di occupabilità e di coerenza dei percorsi con il mercato del lavoro, non va bene per i ritardi evidenti nel costruire profili di competenze adeguati alle grandi trasformazioni delle catene di valore, non va bene per le insufficienze nelle politiche di integrazione dei giovani immigrati, non va bene per la residualità dell’educazione degli adulti, non va bene per l’abbandono in cui versa il segmento terziario non accademico dell’Istruzione tecnica superiore (Its), una delle poche innovazioni di qualità degli ultimi anni che rischia di morire in culla. Non va bene (e l’elenco è sommario).
Ci sarebbe da chiedersi come mai, a dispetto delle dichiarazioni unanimi sulla “centralità” della scuola, non uno di questi temi sia al centro del discorso pubblico.
Sappiamo bene che, politicamente, occuparsi di istruzione con intenti realmente riformatori è poco remunerativo (i risultati si vedono nel tempo, gli effetti collaterali negativi subito, come con gli antidepressivi: e una politica in perenne campagna elettorale di tempo ne ha poco), quando non pericoloso. Chi avrebbe il compito di far venire a galla i problemi, metterli a fuoco, esigere soluzioni dalla politica – i giornali, i corpi intermedi, i gruppi intellettuali… – dove sono? Paginate e paginate sui banchi a rotelle.
Non è certo qui che possiamo, non dico affrontare ma neppure mettere in fila i titoli delle debolezze di sistema cui ho fatto appena cenno. Tuttavia, una raccomandazione di metodo, preliminare all’avvio di qualunque ragionamento serio, mi sento di proporla. Si smetta di parlare di “scuola” al singolare. Qualunque discorso sul sistema di istruzione e formazione deve tener conto di alcune decisive opposizioni che, su vari piani (ordinamentale, sociale, geografico, anagrafico), permettono almeno di non uniformare un paesaggio disomogeneo: formazione liceale/tecnico-professionale, centro/periferia, grandi/piccoli centri, Nord/Sud, giovani/adulti (formazione permanente).
Questa raccomandazione, in sé banale quanto normalmente disattesa, è decisiva per tre ragioni.
Primo, occorre uscire dal genericismo delle proposte e circoscrivere obiettivi realizzabili: non ha per esempio alcun senso parlare di utilizzo del digitale come strumento di innovazione, senza tenere conto del ritardo nelle infrastrutture di rete, diversamente disponibili a seconda dei cleavage su menzionati nei vari contesti.
Secondo, qualunque discorso sulla didattica deve essere calibrato sullo specifico delle situazioni concrete: non mi pare che fra le lamentose obiurgazioni contro la Dad qualcuno abbia fatto riferimento ai veri limiti di applicabilità del remoto, tutte le volte che il curricolo preveda attività di laboratorio, ciò che investe in prima battuta l’istruzione tecnico-professionale (già, ma chi se li fila i tecnici e i professionali?).
Terzo, solo se consideriamo “le scuole” e non “la scuola”, potremo decidere dove allocare risorse nuove, secondo priorità tutte da decidere in sede politica, coerenti con una prospettiva razionale di effettivo miglioramento dell’intero sistema.
Perché poi bisognerà decidere e, prima, magari, discutere da qualche parte, su cosa vogliamo investire. Oggi il comparto è largamente sottofinanziato (vale per la scuola come per l’università). Rispetto alla media europea, siamo sotto del 20% (circa l’8% contro il 10% della spesa su Pil). Tutti lo dicono e se ne lamentano da tempo: la curva calante comincia nel 2009. Non che prima si spendesse meglio, ma si spendeva di più.
La novità è che adesso i soldi, via Next Generation EU, ci saranno e, grazie alle condizionalità del piano (Dio le benedica), non potranno essere impiegati in spesa corrente. Siamo obbligati a investire. Il presidente Conte ha già detto che l’istruzione e la formazione costituiscono uno dei sette pilastri su cui il governo intende orientare il proprio Recovery Plan. Bene, ne siamo felici. È possibile avviare uno straccio di dibattito su cosa vogliamo puntare? Cosa viene prima e cosa viene dopo? Quale delle molte insufficienze di cui dicevo sopra è più urgente colmare? Il divario territoriale e il contrasto alle nuove povertà educative? L’edilizia scolastica e i nuovi ambienti di apprendimento? La banda larga e le infrastrutture di rete? L’ampliamento del tempo pieno e dei servizi per i più piccoli (nidi e scuole dell’infanzia)? La dotazione finanziaria delle scuole per l’arricchimento dell’offerta formativa? Lo sviluppo dell’Istruzione tecnica superiore? Se ne può parlare da qualche parte?
Nell’attesa, torniamo nei confini dell’attuale confronto publico su cosa ci attende a partire da questa settimana. Quanto alle regole e ai dispositivi per la sicurezza sanitaria, non mi pronuncio sulla loro efficacia – e nessuno può farlo ex ante, mi pare. Vedremo.
Una cosa tuttavia va ricordata ed è il prezzo che si paga con il “tutti in classe”. Venticinque statuine immobili nei banchi, l’insegnante dietro la cattedra, niente apprendimento cooperativo per piccoli gruppi, niente classi aperte, intervalli nelle aule fermi al posto: la scuola di Amarcord era più dinamica. Eppure c’era (e c’è) la possibilità di inventarsi qualcosa di diverso, trasformando il vincolo della Dad, subìto durante la chiusura primaverile, in opportunità di ripensamento del fare scuola (parlo qui soprattutto della secondaria superiore). Lo stesso ministero ha approntato delle linee guida per la Didattica digitale integrata (Ddi), promuovendo l’idea che una forma mista, in presenza e a distanza, sia una delle opzioni possibili.
E qui entriamo nel dibattito sull’uso del digitale. Non so dire quali risultati abbia conseguito la pratica delle lezioni in remoto durante il lockdown, anche perché, a mia conoscenza, fatta eccezione per uno studio sull’esperienza nel bergamasco, non ci sono indagini attendibili, che ci diano un quadro abbastanza articolato da poter trarre indicazioni utili.
So per certo, tuttavia, che decine di migliaia di insegnanti hanno preso confidenza in due mesi con uno strumentario informatico che neanche dieci anni di Piano Nazionale Scuola Digitale (Pnsd). Si è trattato di un aggiornamento forzoso, diciamo così, eppure efficace. Era l’occasione storica per favorire il diffondersi di esperienze già maturate negli ultimi anni in alcuni ridotti dell’innovazione, di incentivare una maggiore duttilità nella distribuzione dei tempi di apprendimento, aiutando le scuole a definire più liberamente le unità orarie, lasciando quote temporali all’apprendimento individuale o a progetti di recupero o di ampliamento dell’offerta formativa. Tutte cose rese possibili solo se il modo in remoto affianca quello in presenza.
Purtroppo la Didattica digitale integrata viene invece concepita come alternativa subalterna a quella del “tutti sempre e solo a scuola”, da esperire solo in caso di parziale interdizione dell’accesso agli edifici causa Covid, anziché come possibile arricchimento delle pratiche didattiche in quanto tale – come Ersatz, invece che come via maestra.
La commissione ministeriale guidata da Patrizio Bianchi alcune di queste indicazioni le aveva date già in maggio, ma sono rimaste lettera morta. Peraltro le expertise del gruppo di lavoro sono state, chissà perché, avvolte nel mistero, praticamente secretate. Condotta curiosa, far lavorare degli esperti e, alla fine, non solo non tenere conto del loro parere, ma neppure farne oggetto pubblico di discussione…
Insomma, con qualche coraggio in più si potevano immaginare da subito soluzioni più flessibili del tutti a scuola in contemporanea (parlo sempre delle superiori: ma non è una porzione piccola del tutto), rendendo meno (fisicamente) rigido lo stare a scuola, grazie alla riduzione numerica delle presenze contemporanee e delle unità orarie, alternando prossimità e remoto, con beneficio sia dell’innovazione didattica sia della prevenzione sanitaria. Così non è stato, pazienza. La scuola ne ha viste di peggio.
In un istituto di Bologna si è riunito a distanza varie volte tra luglio e agosto un gruppo di lavoro sulle misure da adottare in settembre. Nome del gruppo: “Vietato lamentarsi”. È forse l’indicazione operativa più utile che mi è capitato di raccogliere, fuori dalla ridda vaniloquente del discorso pubblico sulla riapertura delle scuole.