Il primo passo verso la separazione delle carriere è stato fatto, con una votazione che è passata a larga maggioranza nella prima votazione alla Camera, con 174 sì, 92 contrari e 5 astenuti. Ma non è tanto il numero dei deputati favorevoli che può confortare il lungo percorso che il ministro della Giustizia Carlo Nordio deve affrontare.
Se era scontato l’appoggio del governo di centrodestra (anche se la destra non ha mai brillato di entusiasmo per questa riforma), il fatto positivo è arrivato dal voto favorevole di +Europa con Emma Bonino, Benedetto Dalla Vedova, Riccardo Magi, che non risparmiano critiche al governo e sono contrari alla maggioranza, e da Azione di Carlo Calenda, contrario anche lui di solito alla maggioranza. I cinque astenuti vengono dal partito di Matteo Renzi, Italia Viva, che avrebbe votato con tutta probabilità a favore se non avesse un conto aperto direttamente con Giorgia Meloni.
Insomma alla Camera ha prevalso un principio che in Italia si aspetta da tempo memorabile per allinearci agli altri Paesi democratici, dove la separazione delle carriere tra accusa e difesa, il giudice al disopra delle due parti in contraddittorio nel processo, risale da tempo immemorabile. Non se ne sono dimenticati i deputati di +Europa, di estrazione radicale, legati a una battaglia che Marco Pannella ha combattuto per tutta la vita e lasciato in eredità a chi si ispira alle sue idee. E non poteva mancare Calenda, che si distingue dalla confusionaria opposizione della sinistra italiana rivendicando principi liberal-democratici.
Già questa composizione della maggioranza parlamentare sulla separazione delle carriere smentisce la rivendicazione che ha fatto una parte della maggioranza attribuendo la legge alla volontà di Silvio Berlusconi, ma smentisce sopratutto l’opposizione che, attraverso il giornale della Fiat (oggi Stellantis, un esempio di editoria impura come pochi nel mondo), ha titolato a tutta la pagina “La giustizia di Berlusconi”.
Come sempre la Fiat e i suoi eredi hanno la memoria molto corta, quando gli conviene. Si sono dimenticati tutta la scuola riformista, da Turati e Matteotti, grandi avvocati in un’epoca in cui i comunisti li chiamavano traditori e la Fiat neppure li considerava. Si è dimenticata ovviamente della scuola cattolica, di un uomo come Francesco Carnelutti e poi di una grande giurista come Gian Domenico Pisapia, uno dei primi a ricordare agli italiani il “giusto processo” approvato in Europa nel 1950 e inserito nella nostra Costituzione negli anni duemila.
E naturalmente neppure hanno dato uno sguardo a chi ha condannato il processo inquisitorio, che tanto è piaciuto ai pubblici ministeri italiani: Enzo Tortora veniva assolto, ma il pm Diego Marmo disse dopo trent’anni di essersi sbagliato, e intanto aveva fatto carriera. Per carità di patria non citeremo Luca Palamara e i suoi “ricordi”.
Comunque, nella fretta di dichiararsi anti-berlusconiani, nessuno ha detto una parola sulla grande battaglia che verso il processo accusatorio fece Giuliano Vassalli, grande giurista e medaglia d’oro della Resistenza per aver liberato in un’azione partigiana Sandro Pertini e Giuseppe Saragat dal carcere di Regina Coeli. E qualche merito va dato anche a Marta Cartabia che un piccolo passo in avanti verso una distinzione tra pm e difesa l’ha fatto, riducendo ormai a un solo passaggio il ruolo tra giudice e pm. Ma tutto questo non basta agli indefessi inquisitori di casa nostra. Nemmeno la testimonianza e l’impegno di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
In una intervista a Mario Pirani, nell’ottobre 1991, Falcone sosteneva: “Il giudice in questo quadro si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano in realtà indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nella competenza e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità penale, desiderosa di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo”.
Si dovrebbe scrivere un libretto raccogliendo tutte le dichiarazioni di un martire come Falcone a favore della separazione delle carriere oppure portare dei manifesti con le sue frasi nei tribunali, per smentire bugiardi, ciechi e smemorati interessati. Lo ribadisce l’ex magistrato Giuseppe Ayala che conferma la posizione di Falcone collegandola a quella di un altro grande pm che è stato ucciso, Paolo Borsellino.
Ma non c’è verso, tutti fanno finta di dimenticare. La sinistra di derivazione comunista dimentica i soldi presi dall’URSS (ormai tutti si dichiarano ex comunisti italiani), e quando votò per “alzata di mano” l’uccisione di Imre Nagy, l’ex primo ministro della rivolta ungherese, Palmiro Togliatti era un comunista “apolide”.
Quindi, il fatto che si dica che la separazione delle carriere è la giustizia di Berlusconi è una balla da ignoranti e smemorati di comodo.
Qualcuno poi, per giustificare la sua posizione, si ricorda di Montesquieu. Anche qui si può piangere o ridere.
Tra Lettres persanes e Espit des lois, uno dei fondatori della democrazia scriveva a proposito del processo penale: innanzitutto la persona ha diritto di rispondere a una fattispecie incriminatrice precisa e di confrontarsi con un’accusa chiara e determinata. In secondo luogo a un contraddittorio tra pari davanti a un giudice terzo. Altro che giustizia di Berlusconi!
In realtà sembra che sia cambiato il mondo. La non separazione delle carriere piaceva tanto al ministro fascista Dino Grandi che disse: “Superata la distinzione, fondamentalmente erronea, tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile in uno Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante”. Complimenti ai nostalgici di destra che fanno la sinistra oggi e che sono riusciti a far diventare la Meloni una garantista!
Per documentarsi meglio, sarà bene leggere l’ultimo libro di Fabio Martini su Craxi, aggiornato con nuovi documenti, che riguardano i rapporti tra magistratura italiana, il consolato americano a Milano e le “correzioni” postume dell’ambasciata americana di Roma durante Mani pulite. Poi non sarebbe male leggere Bettino Craxi. Lettere di fine Repubblica a cura di Andrea Spiri. Forse si capirebbe qualche cosa di più anche quando si vota sulla separazione delle carriere.
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