Per le morti sul lavoro non vale la legge dei grandi numeri. I lavoratori hanno il diritto effettuare la loro prestazione in condizioni di massima sicurezza e il datore lo deve garantire nel quadro stesso dei suoi obblighi contrattuali. Anzi, nel codice civile (che risale addirittura al 1942) è prevista una norma molto avanzata. L’articolo 2087 stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ovvero, l’obbligo va oltre quanto previsto in un determinato periodo storico dal contesto legislativo che di solito si adegua in ritardo all’evoluzione della scienza e della tecnica.
È il caso della esposizione all’amianto, la cui utilizzazione è stata proibita negli anni ’90, mentre se n’era fatto largo impiego, negli stessi capitolati d’appalto, nei decenni precedenti. Ciò non ha impedito alla magistratura di perseguire ugualmente – ad anni di distanza – i decessi per mesotelioma e di tutelare sul piano sanitario e previdenziale i lavoratori che vi erano stati esposti.
Tutto ciò premesso, è comunque opportuno e corretto l’articolo di Natale Forlani, pubblicato ieri da Il Sussidiario, nel quale l’autore, forte di una lunga esperienza in diversi ruoli di “prima linea” sul fronte del lavoro, si misura con i dati di altri Paesi e soprattutto si cimenta con la seria storica dei decessi per infortuni, distinguendoli in base ai diversi settori merceologici, alla dimensione delle imprese e al luogo in cui si svolgono, tenuto conto che l’infortunio in itinere avviene “in occasione di lavoro”, ma è più collegabile alla problematica della sicurezza stradale che non alle condizioni di lavoro nell’impresa.
Va da sé che il benchmarking non può essere evocato come pretesto o giustificazione, ma almeno può servire a ridimensionare quella narrazione che facciamo di noi stessi, come se i posti di lavoro fossero campi di battaglia dove la vita umana viene coscientemente sacrificata al profitto. Anche nel commentare le statistiche è necessario essere accorti. Per esempio, dopo la strage nel cantiere dell’Esselunga a Firenze sono stati pubblicati dati clamorosi sulla percentuale di aziende trovate non in regola.
Innanzitutto, occorre chiarire la caratteristica della violazione delle norme, se si tratta di questioni amministrative, dell’organizzazione produttiva o del malfunzionamento dei macchinari. Se si vuole essere severi possiamo pure rifiutare l’ipotesi dell’errore umano, sempre riconducibile a un difetto nella formazione o nella vigilanza dei preposti alla sicurezza. Ma non si deve mai smarrire un dato di fondo. Le percentuali di elevata di irregolarità si riferiscono alle aziende che sono state oggetto di accesso da parte degli ispettori, non di tutta la platea interessata. Anzi, per certi aspetti il numero delle aziende in fallo potrebbero essere un buon indicatore dell’efficacia della programmazione degli eccessi, nel senso che sono stati scelti settori, aree territoriali e tipologia di imprese che violavano le norme e che quindi meritavano una sanzione. Non c’è nessun merito nel recarsi in un’azienda per certificare che tutto è a posto. Perdono solo del tempo gli ispettori e i datori di lavoro.
Dopo il caso di Firenze i sindacati si rivolgono al governo per ribadire “mai più”; e il Governo promette di adottare misure talmente severe da venire a capo dello stillicidio dei morti sul lavoro. Di solito si finisce nella palude delle “Gride” di manzoniana memoria con la creazione di nuovi reati, l’incremento delle pene e l’assunzione di nuova falangi di ispettori. Senza curarsi del parere dei tecnici che operano in prima linea. Per esempio, l’ex capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl, istituito nel 2015 in attuazione del Jobs Act) Bruno Giordano, un magistrato con una grande esperienza in materia, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano fornì delle indicazioni importanti sulle misure da assumere, pur nell’ambito del contesto normativo allora in vigore. Secondo Giordano, sarebbe stato fondamentale realizzare il coordinamento dei servizi per poter fare in una volta sola controlli incrociati sulla regolarità complessiva dell’azienda e sulla posizione contributiva, assicurativa e di sicurezza dei lavoratori. Invece ogni ispettore guarda alla materia di sua competenza e il coordinamento è affidato alla buona volontà. “Dietro però ci sono – aggiunse – anche questioni tecniche e informatiche: noi abbiamo un accesso molto parziale alle banche dati di Inps e Inail con le informazioni sulle aziende controllate”. Alla domanda se fossero state necessarie sanzioni più severe, Giordano rispose: “Dopo 30 anni di attività giudiziaria in materia di sicurezza sul lavoro mi sono convinto che punendo di più non si ottengano maggiori risultati. Occorre prevenire gli incidenti e per farlo servono controlli quantitativamente e qualitativamente incisivi e un rafforzamento del potere sospensivo dell’attività di impresa che già abbiamo. Oggi l’Ispettorato può fermare un’azienda che abbia oltre il 20% di lavoratori in nero o che sia recidiva nel commettere violazioni in un arco di 5 anni. Si potrebbe ridurre la quota di lavoratori in nero oltre la quale scatta la sospensiva – perché il lavoro nero è lavoro insicuro – e si potrebbero aumentare i casi in cui possiamo esercitare questo potere”.
Questa è una rivendicazione classica di Maurizio Landini. Come si vede chi non si informa bene sulle norme vigenti rischia di acquistare un’auto usata. Quando Giordano, dopo 500 giorni (dal 2021 al 2023) lasciò l’incarico a Paolo Pennesi, l’ex Direttore ricordò che il Decreto Fiscale D.L. n. 146/2021 “non ha semplicemente riconosciuto all’Ispettorato le competenze generali in materia di sicurezza, ma ha consentito ulteriori concorsi per un incremento dell’organico di 1024 unità, e di 90 carabinieri del lavoro, di avviare il Sinp dopo ben 14 anni di inerzia amministrativa, di intervenire chirurgicamente dove v’è lavoro nero e gravi violazioni in materia di sicurezza”. E ricordò anche la riforma della sospensione dell’attività di impresa, “misura che si sta rivelando efficacissima se è vero che si è passati da alcune centinaia di provvedimenti del 2021 a oltre 7.000 nei primi mesi del 2022”.
Nel 2023, riportava ancora l’ex Direttore, i concorsi avrebbero portato a un incremento dell’organico degli ispettori tecnici da poco più di 200 a circa 1400, cioè del 700%, come atteso dopo molti anni di mancate assunzioni. In sostanza si passò da un ispettore ogni 10mila aziende a uno ogni 6/7 mila. Questi rapporti possono sembrare largamente insufficienti, ed è senz’altro opportuno procedere a nuove assunzioni e a un coordinamento più efficace tra i diversi servizi, superando la frantumazione delle competenze. Ma qualcuno pensa forse che sia possibile controllare – in permanenza? – oltre 4 milioni di imprese?
Ecco, allora, come si arriva al punto cruciale segnalato, a suo tempo, da Mario Draghi: “Collaborazione all’interno della fabbrica per l’individuazione precoce delle debolezze”. In sostanza, ognuno deve essere “ispettore di se stesso” e dei propri colleghi. E il bello è che queste possibilità sono sancite e salvaguardate dalla legge, anche se nessuno, tanto meno i sindacati, ne parla. Le norme in materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali (dlgs n.81/2008 e successive modifiche) assegnano delle funzioni essenziali ai rappresentanti dei lavoratori in azienda o a livello del territorio. Vi è un’intera Sezione (la VII) dove sono previste forme di consultazione e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori eleggibili in tutte le aziende anche se piccole. Per farla breve, non si tratta di fare tappezzeria. I poteri di questi lavoratori sono effettivi; possono disporre senza perdere la retribuzione del tempo necessario per svolgere i loro compiti e soprattutto il rappresentante “può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro”.
Ma questi rappresentanti dei lavoratori corrono rischi di rappresaglia? No. Le tutele sono già previste dal TU: “Chi è chiamato dagli altri lavoratori a svolgere tale funzione non può subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività e nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali”.
Infine, Giordano nell’intervista sfiorò un problema essenziale, pure senza arrivare a conclusioni. Alla domanda se esistesse un problema di coordinamento con le Asl a cui spettano i controlli su salute e sicurezza, l’allora direttore generale dell’Inl rispose: “Sono più di 100 e fanno capo alle Regioni e province autonome, per cui ognuna risponde a un certo orientamento politico. Per di più non sono nemmeno in rete tra loro, oltre a non avere una banca dati comune con Inps e Inail. Che è indispensabile per conoscere il lavoro che stanno facendo gli altri ed evitare duplicazioni o triplicazioni. Affidare agli enti locali la tutela della salute e sicurezza aveva senso nel 1978, quando fu istituito il Servizio sanitario nazionale, ma oggi per farlo servono competenze sull’ergonomia, sugli algoritmi che regolano il lavoro per le piattaforme, sullo stress e le curve di attenzione…dobbiamo alzare il livello tecnico”.
Sarebbe ora – secondo noi – di rivedere un’impostazione sostanzialmente ideologica che risale all’istituzione del Servizio sanitario nazionale: la dottrina della tutela unitaria della salute (prevenzione, cura e riabilitazione) che assegnò anche la problematica infortunistica alle Asl (per fortuna un referendum ha sottratto alle Asl le funzioni in materia di ecologia). In precedenza l’Inail aveva una competenza esclusiva ed era dotato persino di proprie strutture ospedaliere (i c.d. traumatologici). È abbastanza comprensibile che nel personale delle Asl oberate dai problemi della sanità siano carenti le figure professionali in grado di intervenire sulla sicurezza dei macchinari e sull’organizzazione del lavoro. Per inciso: i medici del lavoro sono in Italia 5,5mila su 14 milioni di lavoratori. L’ideologia non può continuare a fare da schermo alla realtà.
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