Un tempo alla categoria dei giornalisti (parlandone da viva…) si insegnava che la notizia era l’uomo che mordeva il cane, mica il contrario. Oggi sui giornali (parlandone sempre da vivi) imperano soprattutto le notizie già selezionate dagli algoritmi dei social.
Tranquilli non vi vogliamo rifilare l’ennesimo articolo su Cecilia Sala o sul famoso esperto di turno (che però nessuno ha mai sentito nominare, ma mica devi dirlo) che ti imbambola spiegandoti quel che il buon senso ti ha già suggerito. No, vogliamo concentrarci, invece, su una notizia che agli algoritmi non è piaciuta, che non è stata selezionata da nessun direttore come roba da prima pagina, che non ha ricevuto neppure uno straccio di commento, fosse pure del solito fancazzista che passa la giornata a dire la sua sul mondo (ah, come non rimpiangere le vecchie osterie di una volta, quelle bettole in cui un oste mugolava davanti alle farneticazioni dell’avventore di turno ben sapendo che ogni bicchiere di vino corrispondeva a un problema più grande e a una soluzione più assurda dello stesso, ma fin che pagavi l’oste stesso annuiva conscio com’era che una parte del suo guadagno era legato all’ascolto delle fesserie che i pensatori in servizio permanente gli riversavano nelle orecchie).
Ecco la notizia: Luigi Sbarra, il Segretario generale della Cisl che sta per chiudere a breve il suo periodo al governo della confederazione sindacale di via Po, ha riproposto un patto sociale come via di uscita dalla crisi sociale ed economica che sta colpendo i lavoratori dipendenti e che sta nei fatti cancellando la classe media dalla faccia dell’Italia. Lo ha fatto davanti alla platea della Filca-Cisl, il sindacato del settore edile e legno e ha insistito su alcuni dei tasti tanto cari all’organizzazione che fu di Mario Pastore.
Sbarra prima ha ricordato che negli ultimi anni la Cisl ha sempre tenuto la barra ferma, “con il coraggio di fare scelte impopuliste” e sempre avendo come stella polare “la ricerca di punti di sintesi, ma senza fare sconti nel merito e sui contenuti”. E va bene: come vanno bene, intendiamoci, le polemiche contro chi dialoga solo con gli amici o chi preferisce la (impossibile) rivoluzione alla (complicata) riforma o i richiami al rafforzamento del “dialogo tra istituzioni e parti sociali, utilizzando al meglio le leve della contrattazione, della bilateralità, della piena assunzione di responsabilità nelle relazioni sociali e industriali”. No, il punto che ci interessa, e pazienza se ci abbiamo messo una pagina ad arrivarci ma mica ci hanno chiesto di scrivere un articolo di poche righe!, è la richiesta “di strutturare il dialogo con il Governo guardando allo sviluppo e alla qualità del lavoro, accelerando con una governance partecipata la messa a terra delle risorse del Pnrr, sostenendo insieme il cammino delle riforme, coniugando investimenti e produttività”. In sostanza, e finalmente ci siamo, si tratta di arrivare a “un contratto sociale che metta insieme crescita, salari più alti, buona occupazione, sicurezza sul lavoro, rilancio della sanità pubblica, innovazione”.
Bene, bravo, bis. Ottima riflessione e belle parole: che bell’idea quella del contratto sociale. Ci vengono in mente (elenchiamo alla rinfusa: gli interessati non se ne abbiano a male) Jean-Jacques Rousseau, l’ottimismo della ragione illluministica, il buon selvaggio, il bene civile. Ma ci chiediamo da impenitenti cinicizzanti quali l’età ci sta rendendo, siccome il contratto si fa (almeno) in due e siccome il contratto sociale è (fu) un modello politico di società che, constatata l’impossibilità di ritornare allo stato di natura primigenio e constatata la crisi dell’uomo moderno, doveva garantire che lo Stato democratico assicurasse la libertà di ciascuno, ci sarebbe il piccolo problema di individuare almeno un interlocutore aperto e pronto alla discussione. Ricordiamo: Rousseau riteneva che il potere politico derivasse dall’individualismo dei cittadini e dal contrattualismo, ovvero dall’idea che alla base dell’associazionismo politico vi sia un accordo razionale e convenzionale, che permette di superare la semplice legge del più forte.
Quindi due poli: il cittadino libero e la sua aggregazione. E fin qui ci siamo. I cittadini si iscrivono alla Cisl (poniamo: e complimenti per i bei numeri ottenuti con le iscrizioni tra i lavoratori attivi nel 2024) cui lo Stato garantisce il diritto di contrattare con altre entità sui temi di proprio interesse. Già: ma chi sono queste entità se non lo Stato stesso? Mica si possono contrattare le pensioni con Confindustria o i servizi sociali con Banca d’Italia.
E dunque? Sbarra ha sbagliato? No certo, ma l’impressione è che, diciamo, ha gettato un po’ il cuore oltre l’ostacolo senza guardare se di là della siepe c’era un prato o un lago o un burrone. Perché nei fatti Sbarra ha riproposto le antiche parole d’ordine cisline della contrattazione e della concertazione come vie per la partecipazione dei cittadini al potere ben sapendo che per un grande patto sociale servirebbe, roussovianamente, quella volontà generale dei cittadini che all’interno del contratto di associazione diviene una forma di decisione collettiva legislativa e di cui oggi però non si intravvede neppure l’ombra.
Più che di un’impressione personale il nostro è un moto di sfiducia di fronte, ad esempio, alla situazione in cui versano le proposte di legge tanto care alla Cisl (e di cui questo Governo si è fatto tutore) e che lentamente sembrano assumere la forma di una materia di scambio politico laddove invece il contratto sociale imporrebbe per arrivare a una loro implementazione nel sistema italiano che venissero anche adottate da tutti gli interlocutori e che insieme lo Stato, cioè il Governo, se ne facesse tutore. Invece esse sembrano miseramente ferme su una banchina ferroviaria in attesa che il capostazione, al secolo Giorgia, decida che dopo aver messo le nostre telecomunicazioni nelle mani dell’italianissimo Elon Musk anche i diritti dei lavoratori e le loro rivendicazioni economiche e sociali meritino una certa qual attenzione.
Il percorso verso un contratto sociale ci sembra insomma che sconti il solito problema: se a sinistra si vedono i compagni di strada intenti a organizzare la rivoluzione dall’altra parte, a destra s’odono discorsi rispetto ai quali il sibilo della lingua biforcuta del disneyano Sir Biss (e se non sapete chi sia vuol dire che vi siete persi il più bel film della storia del cinema) diventa l’evangelico “sì sì, no no”.
Insomma, per il patto sociale, temiamo, sia necessario sperare che le attuali opposte tifoserie smontino gli apparati bellici per indossare i panni della ragione e del buon senso e che tutti si decida di ragionare in termini di comunità, dismettendo le paludate armature da pseudocrociati che tanti amano cingere per infilarsi invece le umili vesti francescane del servizio al Paese o il più severo saio domenicano: perché a noi, se il Patto Sociale di Rousseau non ci dispiace mica (le formule no, ma passateci almeno che la sintassi sia un po’ populista), sai però quanto più abbiamo a cuore l’idea tomistica del “Bene Comune”?
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