SINDACATI E POLITICA/ La lettura sbagliata del Paese reale di Cgil e Uil

- Natale Forlani

Lo sciopero generale di Cgil e Uil tenutosi ieri sembrava mancare di obiettivi concretamente realizzabili e di azioni realmente positive

Manifestazione Sciopero FiomCgil Lapresse1280 640x300.jpeg Fiom-Cgil (Lapresse)

Nella mia memoria di ex sindacalista e di persona che, a vario titolo, ha continuato a seguire le vicende del mondo del lavoro, fatico a trovare delle analogie con le caratteristiche dello sciopero generale promosso dalla Cgil e dalla Uil nella giornata di ieri, nel mezzo di una emergenza sanitaria, rompendo l’unità d’azione con la Cisl, senza obiettivi concretamente realizzabili. Uno sciopero generale che ha pretese politiche, ma che riscontra solo una pelosa solidarietà dalle forze politiche della sinistra che nel frattempo si accingono ad approvare le misure contestate dai manifestanti.

Nei comizi tenuti dai leader delle due organizzazioni sindacali non è dato comprendere quali possano essere nel concreto gli obiettivi attesi dai promotori. Il Segretario della Cgil Landini chiede un cambio di fase, il recupero di chi è rimasto indietro, di contrastare la precarietà e le delocalizzazioni delle imprese. Quello della Uil, Bombardieri, si associa al collega evocando la distanza tra la politica e il Paese reale, e rivendica come un successo la capacità del sindacato di mobilitare i lavoratori per ribadire che, nonostante la ripresa dell’economia, ci sono cose non vanno bene. Entrambi minacciano nuove mobilitazioni in assenza di risposte concrete rispetto a proposte che non vengono sostanziate. Quando lo sono, come nel caso dei pensionamenti anticipati, vanno nella direzione opposta agli obiettivi proclamati, perché foriere di ulteriori discriminazioni nei confronti delle giovani generazioni.

Le cronache recenti confermano che la dichiarazione dello sciopero generale è stata assunta a seguito della mancata accettazione da parte del Governo di introdurre un contributo di solidarietà per i redditi superiori ai 75 mila euro lordi, per la gran parte percepiti da dipendenti e pensionati, azzerando i benefici (240 euro anno lordi) per questi redditi derivanti dalla riduzione delle aliquote nelle fasce comprese tra i 15 mila e i 50 mila euro.

Come dimostrato da diversi studi, l’ultimo dei quali pubblicato dal ministero dell’Economia, i benefici derivanti dall’effetto cumulato delle tre riforme dell’Irpef introdotte negli ultimi 6 anni, anche con l’introduzione di bonus e l’aumento delle detrazioni fiscali, si concentrano soprattutto sui bassi redditi. In modo tale da azzerare in via di fatto le imposte realmente versate per quelli inferiori ai 15 mila euro anno e ridurre in modo significativo le tasse per i redditi fino ai 35 mila euro. Per aumentare i vantaggi sui bassi redditi, in assenza di prelievi fiscali reali, il Governo ha proposto di ampliare la no tax area per i pensionati e la riduzione della quota dei versamenti previdenziali fino ai 35 mila euro per venire incontro alle richieste delle organizzazioni sindacali. Proposte che, insieme a una corretta ponderazione del volume delle risorse introdotte per sostenere la riforma degli ammortizzatori sociali e gli altri provvedimenti destinati alle categorie più deboli, hanno portato la Cisl a dissociarsi dalla decisione di proclamare lo sciopero generale.

La riforma dell’assegno unico, che prevede una forte riduzione degli importi per ogni figlio a carico per i redditi familiari Isee al di sopra dei 25 mila euro, accentua ulteriormente questo divario in favore dei bassi redditi.

Nel complesso i veri beneficiari delle riforme fiscali e dei sostegni familiari risultano essere i lavoratori autonomi, che possono avvalersi della flat tax, della abolizione dell’Irap, e dell’introduzione dell’assegno, dato che in precedenza non usufruivano degli assegni familiari, e che risultano essere, nelle richiamate indagini del Mef, le categorie che evadono mediamente gli obblighi fiscali per importi equivalenti al 65% dei redditi reali.

Nelle condizioni date, additare come ricconi da colpire i percettori di salari e pensioni superiori ai 2,5 mila euro netti mensili, e che si stanno facendo carico del 60% dei versamenti totali dell’Irpef, è una cosa priva di senso.

La carenza di argomenti solidi finisce quasi sempre per essere compensata dalla ricerca di bersagli impropri, e dall’utilizzo delle leve emotive (l’assenza delle politiche industriali, l’aumento dei poveri, i pensionati trascurati, le multinazionali cattive, i danni provocati dal Jobs Act …) evocate puntualmente nei comizi dei leader sindacali.

Alla luce degli orientamenti confermati dal Governo, e da quelli che emergono nel Parlamento, è assai improbabile che lo sciopero possa trovare segnali di riscontro nella Legge di bilancio che sarà approvata nelle prossime settimane dalle Camere. Mentre sono evidenti i guasti generati dalla rottura del fronte sindacale e dalla difficoltà di costruire un dialogo tra le parti sociali in grado di influenzare in modo propositivo la gestione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

In questa direzione la differenza la fa davvero la lettura del Paese reale e del modo di affrontare le cause della mancata crescita dell’economia e dell’occupazione: la deriva assistenziale del nostro welfare, la dominanza delle politiche passive del lavoro rispetto a quelle attive, un sistema fiscale che penalizza gli investimenti e l’occupazione e che incentiva a non dichiarare i redditi per meglio beneficiare delle prestazioni pubbliche, una Pubblica amministrazione incapace di gestire in modo rapido ed efficiente le risorse disponibili. Temi che hanno a che fare con gli approcci culturali e comportamentali degli attori economici e sociali, e che non si risolvono programmando scioperi e rivendicando l’introduzione di decreti o di altri provvedimenti legislativi. Difficile pensare che le parti sociali, rappresentanze dei lavoratori comprese, si possano estraniare dalla responsabilità di aver quanto meno assecondato queste derive. Il radicalismo rivendicativo, galvanizzato dai professionisti della denuncia permanente, è una parte integrante della malattia, non la soluzione dei problemi.

Su questo terreno si misura lo stacco che esiste tra il lavoro svolto dal Governo per mobilitare le risorse per rendere solida la ripresa economica e la capacità degli attori sociali di contribuire in modo propositivo e coerente con gli obiettivi dichiarati.

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