Quattro anni dopo il lancio del ribaltone italiano – di sponda sulla Ue e con la benedizione finale di Donald Trump – Romano Prodi ritenta una narrazione internazionale utile a nascondere e contraddire una situazione politica italiana in cui il centrosinistra è strutturalmente perdente e minoritario (lo è nei fatti dal 2008 nonostante i “dem” siano stati al Governo per 10 dei 15 anni seguenti e occupino ininterrottamente il Quirinale dal 2006 – cioè dall’ultima, contrastata vittoria del prodismo – con due Presidenti consecutivi in anomalo mandato doppio).
Dallo stesso column del Messaggero da cui l’ex Presidente della Commissione Ue evocò nel 2019 un “governo Orsola” per riagganciare al governo il Pd al traino del populismo grillino, Prodi dichiara oggi a gran voce il fallimento di Brexit: cioè dell’evento geopolitico scatenante degli anni del “gran disordine” globale, prima della pandemia e della guerra russo-ucraina. Nel suo piccolo anche la caduta di Matteo Renzi sul referendum istituzionale italiano – un mese dopo la vittoria elettorale di Trump – ha rappresentato un’onda collaterale del terremoto causato dal referendum britannico del giugno 2016.
La narrativa di Prodi è evidente. Le difficoltà dell’odierna Gran Bretagna tory – scossa dalla stagflazione non diversamente da tutti i Paesi occidentali – sarebbero invece solo l’effetto di Brexit. Sarebbero quindi la prova-simbolo della unfitness etico-politica di ogni assetto estraneo alle tradizioni storicamente auto-nominate “europeiste”: la popolare, la socialdemocratica e la liberale (al massimo un po’ ridipinte di verde). Nella visione dell’ex Premier italiano non possono chiaramente esserci buon governo né sorti progressive al di fuori della grande coalizione che sostiene ininterrottamente la Commissione Ue dall’Europarlamento. La coalizione che ha sorretto Prodi dal 1999 al 2004 e – da ultimo – anche Ursula von der Leyen: nonostante una netta sconfitta elettorale alle elezioni del 2019 per l’europarlamento. Ma per l’ex Premier italiano non c’è alternativa alla “troika” Ppe-Pse-Renew Europe, a supporto di un possibile “Orsola-2” dopo il voto del giugno 2024. I sondaggi parlano invece di numeri sempre più problematici nel prossimo emiciclo a Strasburgo e le cronache politiche citano confronti in corso per aprire verso destra la “maggioranza europea”, anzitutto ai conservatori che hanno in Giorgia Meloni il loro leader.
Prodi, nel frattempo. conta molto su quanto sta accadendo in Gran Bretagna. Qui gli sconfitti di Brexit – in prima fila i banchieri e i media della City – sono al lavoro da anni su “Bre-verse”: su iniziative politiche che nel periodo medio-lungo possano sfociare in un contro-referendum, ma che nell’immediato frenino il completamento di Brexit e mantengano una provvisorietà utile a tenere Londra ormeggiata alle coste europee. La City ormai è in allarme rosso: la crisi geopolitica, dopo la pandemia, ha messo ulteriormente in discussione la centralità cosmopolita della piazza finanziaria londinese, azzoppata anche dalla fuga/bando di tanti oligarchi russi e dal congelamento delle relazioni col capitalismo cinese.
Il primo traguardo della potente comunità finanziaria “offshore nel Regno” è la cacciata da Downing Street dei tory, ininterrottamente al potere dal 2010. Le prossime elezioni sono in calendario sulla carta a fine 2024: poco dopo il voto presidenziale Usa e sei mesi dopo quello Ue. Le difficoltà crescenti del gabinetto di Rishi Sunak – succeduto alla disastrosa parentesi di Liz Truss – potrebbero tuttavia anticipare il voto E i sondaggi e alcuni voti suppletivi danno buone chance al Labour di Keir Starmer: un curioso leader “sir” e centrista per la socialdemocrazia britannica; certamente capace, negli ultimi tre anni. di disincagliare il laburismo dalle secche ideologiche dello statal-sindacalismo di Jeremy Corbyn.
Il laburismo post-thatcheriano ed europeista di Tony Blair (fotocopia del clintonismo “dem” negli Usa) e la City delle grandi banche d’affari angloamericane come Goldman Sachs (di cui Prodi – fra l’altro filocinese – è stato international advisor e Mario Draghi executive vicepresident per l’Europa): sono stati gli ingredienti della pozione magica che nei ruggenti anni ’90 in Italia ha reso vincente l’Ulivo. La versione italiana della “sinistra liberale di mercato”, gestrice delle grandi privatizzazioni concepite sul Britannia (e non solo: basti pensare all’Opa Telecom all’ombra del governo D’Alema).
Scontata un’ennesima sconfitta (anzitutto del Pd e del Pse) alle europee del 2024, Prodi sembra dunque guardare a un gran ritorno laburista a Londra come punto di svolta e riscossa geo-politica dell’intera sinistra europea (nella speranza che i “dem” resistano a Washington). Quello che conta per ora è tenere viva una narrazione nella quale anche la presenza in Italia di un Governo Meloni costituisce una parentesi, come il trumpismo in America e il johnsonismo in Gran Bretagna. Una sorta di “errore della democrazia”, come lo sarebbero state – di recente in Italia – anche le tre affermazioni elettorali di Silvio Berlusconi. Chi non sbaglia – in questo schema – sono invece la tecnocrazia di Bruxelles e i banchieri della City: i grandi elettori storici di Prodi, di cui è oggi erede al vertice – forse non per caso – una bolognese dal nome e cognome non italiani, titolare di tre passaporti.
P.S.: Uno dei frutti del ribaltone “prodiano” del 2019 in Italia fu l’approdo al Mef di Roberto Gualtieri (uno storico marxista richiamato dall’Europa) affiancato da Antonio Misiani, formatosi alla scuola del Pci di Vincenzo Visco. Per quanto paradossale possa sembrare, uno dei (non numerosi) cenni d’approvazione alla tassa sugli extraprofitti bancari decisa dal Governo Meloni è giunta dal viceministro Mef nel Conte-2. Invece i banchieri “prodiani” – in Italia e a Londra – continuano ad attaccare ad alzo zero un provvedimento che se Liz Truss avesse adottato nel suo “minibudget” di un anno fa (avendolo verosimilmente meditato) avrebbe evitato alla Gran Bretagna una tempesta finanziaria (reale, non mediatica) che ha rapidamente travolto anche la Premier. Che aveva gli stessi problemi di bilancio degli altri Paesi europei (come anche l’Italia), ma voleva finanziare l’extra-spesa solo con extra-debito: per evitare di toccare gli extra-utili “di guerra” di banche e altre multinazionali quotate al London Stock Exchange.
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