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Home » Cronaca » PROCREAZIONE/ La triste tattica dei “casi pietosi” per giustificare il “far west” riproduttivo

  • Cronaca

PROCREAZIONE/ La triste tattica dei “casi pietosi” per giustificare il “far west” riproduttivo

Non si placano le polemiche per la decisione del tribunale di Bologna di ammettere per una coppia portatrice della distrofia di duchenne di accedere alla selezione embrionale. MARCO OLIVETTI spiega ai lettori de ilsussidiario.net come, sentenza dopo sentenza, è in atto il tentativo di smantellare la legge 40

Marco Olivetti
Pubblicato 3 Luglio 2009
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L’ordinanza del 1° luglio 2008 del Tribunale di Bologna, che ha consentito la diagnosi preimpianto sugli embrioni prodotti da una coppia che dalla decisione parrebbe non sterile, prefigurando la possibilità di selezionare successivamente gli embrioni stessi, prosegue l’opera di demolizione giurisprudenziale della legge sulla fecondazione assistita e delle disposizioni di attuazione di essa (le c.d. linee guida).


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Nel caso specifico, il Tribunale del capoluogo emiliano ha eluso la legge in due punti: laddove essa prevede che la sterilità o l’infertilità della coppia sia condizione di accesso alla fecondazione assistita (art. 4, 1° comma) e laddove essa implicitamente esclude la diagnosi preimpianto, il cui divieto è ben chiaro dal sistema della legge 40 e dai lavori preparatori della stessa. Il Tribunale di Bologna ha deciso in via di urgenza un caso nel quale la donna che richiedeva la fecondazione assistita è affetta da una grave patologia, geneticamente trasmissibile: la diagnosi preimpianto ed il successivo impianto dei soli embrioni privi di tale patologia sono finalizzati ad escludere tale trasmissione.


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Nel ragionare sulla decisione bolognese occorre evitare di essere avvolti nella spirale dei casi drammatici, usati sistematicamente come apripista per la demolizione delle leggi e, in questo caso, per giustificare il “far west procreatico” e l’inutile creazione e selezione di migliaia di embrioni cui la legge n. 40 ha inteso porre fine nel 2004. La regolazione legislativa della fecondazione artificiale si ispira infatti all’idea che tali forme di fecondazione siano consentite come rimedio alla sterilità, ma vadano rigorosamente circoscritte a ben precise condizioni e procedimenti, la cui finalità consiste nella tutela “di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Con il diritto di quest’ultimo devono essere contemperati i diritti degli aspiranti genitori, e fra essi dell’aspirante madre, anche per quanto concerne il suo diritto alla salute.


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Tutte le decisioni giurisdizionali finora susseguitesi (dapprima il Tribunale di Cagliari, poi quello di Firenze, quindi il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, ed infine la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 151/2009) hanno tentato di rispondere a pur comprensibili esigenze di coppie desiderose di accedere alla fecondazione assistita al di fuori dei casi in cui essa è legislativamente consentita, mediante l’attenuazione, se non proprio la elusione, del principio di tutela del concepito, pur affermata – sia pure non in maniera incondizionata – da meno recenti decisioni della stessa Corte costituzionale (si v. in vario modo le sent. 27/1975 e 35/1997). Ma nessuna delle decisioni relative alla legge 40 si è misurata con le istanze poste da questo principio: esse insistono piuttosto sulla tutela delle aspirazioni e dei bisogni degli aspiranti genitori, vedendo solo un lato della medaglia. E, negando o non comprendendo tale principio fondante della legge 40 (del resto già previsto – sia pure solo come omaggio del vizio alla virtù – dall’art. 1 della legge n. 194/1998, secondo il quale “Lo Stato… tutela la vita umana sin dal suo inizio”), finiscono per ritenere irragionevoli le limitazioni che la legge n. 40 prevede proprio per garantire tutela all’embrione.

Sicché, questa ultima vicenda, se non sorprende affatto (data la tendenza di non pochi giudici a prendere partito nella “lotta di classe” ingaggiata contro gli embrioni da un consistente e potente filone culturale nel nostro Paese e in buona parte dell’Occidente), pone in realtà una sola essenziale questione di fondo: quella dell’attuale statuto costituzionale dell’embrione. Del resto, la stessa sentenza n. 151 del 2009 della Corte costituzionale, pur limitando con attenzione l’ambito delle sue dichiarazioni di incostituzionalità e riaffermando la vigenza dei principi di fondo della legge n. 40 (ad es. laddove afferma che rimane salvo “il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario” e laddove sembra concepire l’attenuazione del divieto di creare più di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione assistita come non incompatibile con la tutela generale fornita al concepito dalla stessa legge 40), tralascia proprio questa opera essenziale: quella di definire forme e limiti della tutela dell’embrione, anche alla luce della precedente giurisprudenza sull’interruzione volontaria di gravidanza.

Ne risulta un clima di incertezza del diritto, con la tendenza ad accogliere le più varie istanze, pur spesso provenienti da situazioni dolorose. Ma ciò non deve far dimenticare il dato di fondo: il soggetto più debole, l’embrione, si vede negata dai giudici la tutela riconosciutagli dalla legge, che consiste nel diritto a essere trattato come parte della specie umana e non come un animale o una cosa.


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