Com'era prevedibile, Trump ha deciso di tagliare i finanziamenti federali ad Harvard. Contro di lui si è mosso anche Obama

Harvard, l’università più antica e celebre dell’impero americano, è tornata sulle homepage di tutto il mondo perché Donald Trump ha deciso di tagliare 2,2 miliardi di dollari di finanziamenti federali.

Ufficialmente la Casa Bianca lamenta riforme ancora insufficienti dei regolamenti interni di contrasto all’antisemitismo, dopo che anche Harvard è stata teatro di violente proteste anti-israeliane dopo lo scoppio della guerra di Gaza.



La reazione politico-mediatica è stata quella prevedibile e ha visto scendere in campo anche l’ex presidente Barack Obama, lui stesso studente di legge a Boston con la moglie Michelle.

L’amministrazione Trump è stata paragonata più o meno all’ISIS, che ha voluto distruggere a colpi di esplosivo i templi di Palmira, in odio alla civiltà occidentale. Il taglio dei fondi sarebbe uno specifico “dazio” oscurantista imposto alla produzione di ricerca ed educazione d’eccellenza. Trump sarebbe ai cancelli dei campus qualcosa di simile alle SA hitleriane fuochiste di libri.



È una narrazione ennesima che appare discutibile su molti punti.

Il primo riguarda certamente il finanziamento pubblico del sistema universitario. Harvard è da più di tre secoli un ateneo privato destinatario di un flusso ininterrotto di donazioni (spesso fiscalmente agevolate).

Anzi: è la più ricca università americana, cioè del pianeta. Il suo “endowement” patrimoniale ha superato i 53 miliardi di dollari ed è alimentato ogni anno da interventi talora a sei o sette zeri.

Perché a un’amministrazione federale Usa dovrebbe essere vietato a prescindere di mettere in discussione i sussidi pubblici a una realtà di questo genere? Perché i soldi dei contribuenti non possono essere dirottati su altre politiche?



Certo: Trump è stato eletto per gran parte dagli americani “non laureati” (anzi: “dimenticati” anche dagli establishment dei campus dell’Ivy League), ma è per l’appunto la democrazia politica in azione, non un “attacco alla civiltà occidentale”.

E questo avviene quando l’intero bilancio federale Usa è sotto pressione. Trump l’ha ereditato dai quattro anni di Joe Biden, il quale ha pure firmato uno storico sfondamento del tetto all’indebitamento federale: non per finanziare la spesa sociale, ma anzitutto le guerre in Ucraina e a Gaza. Spesso con l’appoggio delle élites universitarie. Sono le guerre che ora Trump vorrebbe spegnere.

L’offensiva di Trump – che i campus denunciano come dettata da puro odio populistico – appare d’altronde maturata in una crisi specifica dell’alta formazione Usa: quella dello standard meritocratico, pilastro della civiltà americana.

Ormai non è più un mistero – e tanto meno un’accusa calunniosa – che dietro l’afflusso di donazioni d’oro ad Harvard & C. si nascondano pressioni per favorire ammissioni per diritto dinastico o banalmente “a qualsiasi sovrapprezzo” (che per un tycoon di qualunque passaporto a caccia di prestigio per i figli non è mai un problema).

Perché Trump dovrebbe supportare l’autoconservazione familistica delle élites e le retribuzioni di ricercatori e docenti chiamati dai campus privati su basi non più meritocratiche?

È questo lo stesso fronte sul quale si è consumato uno dei molti fallimenti della presidenza Biden. Da candidato dem aveva promesso un colpo di spugna al debito universitario accumulato da decine di migliaia di studenti, ma arrivato alla Casa Bianca non è andato oltre qualche provvedimento-mancia.

Perfino un presidente democratico, votato da schiere di docenti e studenti universitari, si è scontrato con l’accusa di voler favorire gli americani relativamente più ricchi o comunque in prospettiva più privilegiati.

Il casus belli dell’antisemitismo è dal canto suo tutt’altro che marginale o pretestuoso. Mantiene una sua centralità non solo simbolica, anche se in parte paradossale.

Harvard è un “santuario” dell’ideologia politically correct, nel cui nome migliaia di studenti hanno preso a manifestare senza esitazioni contro Israele e a favore dei palestinesi, mano a mano che Gerusalemme ha reagito all’attacco di Hamas con una guerra sanguinosa a Gaza.

È stato l’esito di una “culture war” di lungo periodo che ha visto l’intellighenzia israelita statunitense in prima fila, in quanto tradizionale ossatura dei democratici liberal e radicali.

Ma tutte le cause politicamente corrette sono state messe a prova durissima dalla guerra di Gaza, costata finora cinquanta morti palestinesi per ogni israeliano ucciso il 7 Ottobre. Il “diritto dello Stato ebraico a difendersi” – soprattutto di uno Stato governato oggi dalla destra estremista – è risultato da subito incompatibile con il postulato ideologico della non-discriminazione, anzitutto razziale e religiosa.

Docenti e studenti (ad Harvard, alla Columbia e altrove) hanno quindi subito costruito tendopoli e organizzato marce contro Israele, come i loro padri o nonni contro la guerra americana in Vietnam. Fra loro, oggi come allora, anche non pochi ebrei. Ma i grandi donatori delle università – in parte importante israeliti, talora israeliani – si sono immediatamente schierati sul fronte opposto, a sostegno del governo Netanyahu.

L’azione dell’establishment finanziario israelita – ponte fra “King Bibi” e il Partito repubblicano americano – ha conseguito il suo successo strategico con l’elezione di Trump, seguita alla drammatica rinuncia di Biden alla ricandidatura.

Ma tutto era cominciato proprio ad Harvard all’inizio del 2024, quando i grandi donatori che hanno in mano le chiavi del campus hanno cacciato nel giro di una notte la rettrice Pauline Gay, prima donna afro al timone, nominata da appena un anno.

Il capo d’accusa è stato elementare: essersi rifiutata – anche pubblicamente, davanti al Congresso – di sposare una linea di condanna e repressione del movimento pro-pal. È l’atteggiamento dettato alla politologa di Harvard dal principio costituzionale di libertà di pensiero, parola, ricerca e insegnamento, e da quello della laicità dello Stato, entrambi scolpiti nella Carta americana alla fine del diciottesimo secolo.

Ma nulla è valso a proteggere Gay. Non ha mosso un dito neppure l’allora presidente dem in carica (neanche quando la Columbia è stata sgombrata con centinaia di arresti). Non ha avuto nulla da dire neppure il New York Times, storico portavoce dem dell’ultra-progressiva comunità ebraica newyorchese. Un’approvazione più o meno tacita è invece giunta per la nomina ad Harvard – come presidente ad interim – di un accademico israelita.

È probabile che tutti – da Biden al NYT, dagli ebrei americani dem delle università a quelli repubblicani di Wall Street – ritenessero ancora possibile un’acrobatica quadratura del cerchio, verosimilmente con la rielezione del presidente dem e un esaurimento rapido della crisi di Gaza. È avvenuto l’opposto e ora ad Harvard tutti i nodi giungono al pettine.

Chi può denunciare Trump per sospetta strumentalità nel pretendere standard rigidi di contrasto all’antisemitismo a Boston, quando sono state le autorità accademiche a scatenare per prime una caccia alle streghe antisemite? Chi può denunciare oggi la Casa Bianca di voler calpestare l’autonomia culturale di Harvard, quando un anno fa sono stati i grandi donatori a cacciare le rettrice per ragioni politiche, sotto le pressioni di un governo estero?

Intanto molti docenti e studenti oggi in piazza contro Trump sono gli stessi che un anno fa si sono voltati dall’altra parte: come l’intera amministrazione democratica.

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