Caro direttore,
all’inizio del maggio 1915 l’Italia monarchica e liberale aveva già deciso di tradire la Triplice Alleanza (stretta 33 anni prima con gli imperi di Germania e Austria-Ungheria) per entrare in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia zarista. Il passaggio all’Intesa era però noto soltanto al Re Vittorio Emanuele III (vero sponsor della mossa, molto appoggiata dai circoli economici del Nord attratti dalle commesse militari), al presidente del Consiglio Antonio Salandra, esponente della destra liberale, e al ministro degli Esteri Sidney Sonnino. La Camera (elettiva) non era stata informata del Patto di Londra, né lo era stato il Senato (di nomina regia) e neppure il generale Luigi Cadorna, il capo di Stato maggiore che aveva ricevuto fin dall’agosto 1914 direttive sommarie di preparare l’esercito per una possibile entrata nel conflitto esploso fra le potenze europee.
L’opinione pubblica nazionale era già divisa e arroventata fra interventisti e neutralisti, in campi in parte sovrapposti alle fortissime tensioni sociali lasciate dalla “settimana rossa” che aveva preceduto di poco la scintilla di Sarajevo. La classe dirigente italiana sapeva comunque dell’esistenza di trattative diplomatiche intavolate da Roma con Berlino e Vienna, volte ad ottenere concessioni territoriali in cambio della neutralità.
Il 5 maggio Gabriele D’Annunzio presiedette la più celebre manifestazione interventista. Il giorno dopo Salandra informò il gabinetto del Patto di Londra e s’impegnò – assieme ai suoi ministri – a dimettersi se la Camera non avesse approvato l’ingresso in guerra (è tuttora oggetto di dibattito storiografico una parallela minaccia di abdicazione da parte del Re). Nei giorni successivi, tuttavia, 320 deputati (su un plenum di 508) e 100 senatori (una minoranza qualificata) depositarono il loro biglietto da visita presso la residenza romana di Giovanni Giolitti: il politico piemontese che aveva guidato il Paese fino al 1914 ed era il leader aperto del fronte neutralista. Quest’ultimo – nelle “radiose giornate di maggio” – era ancora maggioritario: raccoglieva fra l’altro le forze politiche popolari (cattolici e socialisti) destinatarie dell’apertura strategica del giolittismo nel decennio della prima industrializzazione italiana, fino al primo voto a suffragio universale maschile del 1913.
Di fronte all’inedito “pronunciamento extraparlamentare”, Salandra presentò al Re le sue dimissioni e le attese erano tutte per un incarico “di unità nazionale” a Giolitti. Quest’ultimo tuttavia non volle creare – in uno scenario di “guerra globale” – una crisi istituzionale fra la Corona e gli organismi di una liberaldemocrazia praticamente neonata. E se il Regno d’Italia poteva guadagnare “parecchio” dalla neutralità, non mancavano alti margini di rischio nel rimanere fuori da una “guerra mondiale”. Non è infine improbabile che lo stesso Giolitti (come Benito Mussolini nel 1940) ritenesse realistico lo scenario di una guerra breve: tollerabile anche per un paese fragile come l’Italia.
Fu così che il Re confermò di fatto Salandra e il suo governo e il 20 maggio l’esecutivo chiese alla Camera i pieni poteri: militari, finanziari, di dirigismo industriale e di ordine pubblico. Meno di cento ore dopo l’Italia entrò nella Grande Guerra. Che si protrasse per 41 mesi, costò 600mila morti e – secondo stime variabili – il doppio del Pil prodotto dal 1915 al 1918. L’Italia “vittoriosa” ne uscì sconvolta e prostrata (come del resto tutti gli altri Paesi dell’Europa continentale): neppure un (breve) governo Giolitti bastò a riportare il Paese a un impossibile “prima”.
Dopo quattro anni di guerra guerreggiata e tre di guerra civile, su Roma marciarono le camicie nere. Pochi mesi dopo, in Germania la svalutazione del marco raggiunse l’800% al mese. E Adolf Hitler tentò il suo primo push.
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